Privacy Policy Popolo e élite: ancora qualche parola sulla lingua letteraria (e dunque sul canone)
Federico Fastelli Vol. 11, n. 2 (2019) Conoscenza

Popolo e élite: ancora qualche parola sulla lingua letteraria (e dunque sul canone)

Riaprire un dibattito sul canone, ripercorrere le polemiche innescate da tale nozione nel corso della postmodernità, insistere sulla rilevanza attuale dei problemi che esso ha suscitato sembreranno a molti operazioni critiche di polverosissima archeologia. Gli interessi teorico-tassonomici contemporanei sembrano aver ben digerito quel lungo dibattito, del resto formalmente archiviato da almeno una quindicina di anni. Tale, apparente, capacità peptica, per così dire, si potrebbe tuttavia intendere come un sintomo assai nefasto: non porsi un problema di canone non significa averne risolto le contraddizioni. Un transito gastrico accelerato non è meno preoccupante di una indigestione.

L’illusione che afferma il contrario è sostenuta da una definizione decisamente parziale del concetto di canone. Essa vorrebbe farcelo intendere, in buona sostanza, come un elenco di opere la cui evidenziazione e il cui accostamento implicasse specifici criteri di selezione e, naturalmente, altrettanto specifici criteri di valutazione. Come ha notato a suo tempo Romano Luperini (2001), l’aggiornamento continuo della memoria di una determinata cultura, memoria che si vuole sempre attiva e selettiva, descrive infatti una tavola di valori variabile nel tempo. Nel corso delle epoche, essa si incarna quindi in opere letterarie via via differenti, a seconda delle prescrizioni didattiche e culturali promosse dalle istituzioni sociali preposte a tale funzione: il presente, come si sa, riscrive continuamente il passato.

Secondo questa definizione, la postmodernità avrebbe frantumato la monolitica coesione di una supposta e quasi astorica cultura tradizionale, frammentandola in elenchi di opere dal carattere meno universale, che qualcuno chiama costellazioni.

A questa idea di canone, come alcuni critici non hanno mai smesso di sottolineare, è sempre necessario, tuttavia, affiancarne un’altra che la completa. E lo fa, letteralmente, contraddicendo la prima: il canone, in questo caso, non è un elenco di opere che implica un criterio di selezione e di valutazione. Piuttosto, indica un concetto di ordine legislativo, che comprende l’insieme delle norme che fondano una certa tradizione e che sono desunte da un’opera o da un insieme di opere piuttosto omogeneo: la variazione nel tempo di questo corpus è assai limitata. La stesura del canone viene eseguita di norma da un letterato legislatore di medio valore e cade esattamente nel momento in cui una certa tradizione inizia a riflettere su se stessa, legittimandosi in rapporto ad altre tradizioni. Di fatto, la codifica estetica di un insieme di norme funziona come legittimazione ideologica di una specifica linea all’interno di quella stessa tradizione. Si tratta in altre parole dell’esternazione diretta e condivisa (ovviamente non da tutti, ma dalla maggioranza dei gruppi dirigenti) di una certa egemonia politica.

Romano Luperini definisce questo modello come l’a parte objecti del canone, mentre l’altro come l’a parte subjecti. Seppure, in ciascuna tradizione letteraria sia sempre possibile ricostruire la logica di entrambi, l’assolutizzazione del canone a parte subjecti nella postmodernità svela da principio il vizio di forma liberal-liberista su cui s’innesta la logica culturale dominante degli ultimi trent’anni, almeno: ognuno è libero (ed è costretto ad esserlo) di costruire la propria costellazione. Ogni costellazione, pur essendo discutibile, avrà infine pari dignità, se non di fronte al tribunale del gusto, di certo rispetto a quello della legittimità di esso. La libertà posta come valore assoluto perde il proprio opposto polo dialettico. In virtù di cosa dovremmo e potremmo esercitarla resta assai misterioso nelle trattazioni liberal e, a dir la verità, anche in alcune tra quelle dei reduci delusi di ambiente post-marxista. Poco importa: il singolo individuo appare adesso padrone (dio, talvolta) del proprio piccolo mondo: a ciascuno si riconosce il beneficio delle proprie opinioni e, addirittura, si può difendere la legittimità teorica della scala di valori su cui esse sono costruite.

La banalissima frase, erroneamente attribuita a Voltaire, secondo la quale pur non condividendo le idee di qualcuno ci si dovrebbe battere fino alla morte perché questi possa esprimerle, si fonda sull’idea assai stupida per la quale la democrazia dovrebbe funzionare sulla base di un’accettazione indiscriminata delle opinioni e dei comportamenti degli uomini. Al contrario, come è vero sia storicamente[1] che teoreticamente, la democrazia e la libertà, per funzionare, necessitano non della tolleranza ma del rispetto dell’altro, il quale rispetto discende soltanto dalla capacità discriminante del giudizio (cfr. Cataldi 2001). Alla metà degli anni Novanta, Christopher Lasch descriveva perfettamente l’avanzata dell’“egoismo illuminato” di quanti si proclamano determinati a rispettare tutti, indiscriminatamente, definendo tale comportamento come un «approccio turistico alla moralità» (1995: 77). La vittoria di quell’approccio, materializzata oggi nelle tribune virtuali dei social network, svela finalmente il proprio carattere turpemente reazionario, ed estingue nei fatti le coordinate fondamentali dello spirito dell’illuminismo, ovverosia la critica, la discussione e il dibattito. Assistiamo quindi alla pervicace trasformazione del discorso pubblico in un farneticante mercantilismo di slogan offensivi dell’intelligenza, ma, come è evidente, ben efficaci sulle masse occidentali (se non è pensabile una democrazia senza cittadini bisognerebbe domandarsi perché, allora, le istituzioni scolastiche superiori puntino su competenze sempre più professionalizzanti, piuttosto che sulla costruzione di un sapere critico essenziale alla coscienza civile, e temo che la risposta risulterebbe particolarmente inquietante). Tale chiacchiericcio squadrista sfrutta ancora quell’egoismo illuminato di cui parlava Lasch, ben al di là di ciò che potesse immaginare il pensiero debole che allora lo promuoveva.

Se è vero che senza generalizzare non si può fare storia è altrettanto innegabile che fare storia per generalizzazioni presuppone sempre dei criteri storicamente determinati, fondati su valori specifici. Per esempio, rispetto alla storia letteraria, si può considerare la letteratura in re, secondo la formula anceschiana, come un sintomo, secondo una prospettiva quindi che rinserra realtà e rappresentazione per una via tortuosa che richiede anamnesi, studio e interpretazione, ma soprattutto richiede un giudizio di valore, che sappia discriminare ciò che deve essere conservato, dal resto. Oppure, si possono considerare le idee che di questa nostra “letteratura circostante” sorreggono le strutture e il funzionamento come irrelate, indipendenti, dotate di una vita autonoma, come se quel che accade in letteratura accade e basta, capita perché l’indole, il temperamento, l’attitudine degli scrittori che la producono lo impone, e quindi pensare che ciascuna costellazione possibile è lecitamente conservabile.

Nell’epoca delle grandi ricognizioni,  in cui gli studi più intelligenti e significativi mi pare aspirino a mappare un presente confuso, in una guerra di etichette che tentano (invano) di rendere finalmente conto del senso dell’epoca che stiamo vivendo, mancano a mio avviso due aspetti fondamentali, entrambi legati alla nostra idea di canone, e alla sottovalutazione dell’a parte objecti di esso. Il primo riguarda la capacità stessa di esprimere un giudizio di valore: appropriarsi dell’oggetto di studio, difenderne la prospettiva attraverso cui ce ne siamo impadroniti, ma soprattutto mirare alla condivisione valoriale che tale lettura implica. Per far questo, la nostra tavola di valori dev’essere esplicita e consentire agli altri di aderirvi, rifiutarla o dibatterne il senso. Il secondo riguarda la capacità di autocritica della critica: l’oggettiva diminuzione dell’importanza sociale della letteratura si accompagna quasi sempre al frustrato esercizio della professione del critico letterario, il quale può scegliere se aderire alla sostanziale indifferenza del sistema mercantile per «i valori in formazione» e per «il dialogo che dovrebbe produrli»  (Cataldi 2001: 143), ovvero ripiegare entro la debole posizione della «corporazione» o della «tendenza critica» (ibidem), rinunciando a qualsiasi tensione extra-letteraria e universale. Rispetto a quest’ultimo punto, tuttavia, credo che la critica debba riflettere attentamente. Primo. Il discorso ideologico dominante è attualmente fondato su una sorta di rimpianto per il bel mondo che fu o, se si preferisce, per i bei tempi andati. Le destre populiste fondano il proprio discorso proprio su questo. La critica letteraria partecipa a suo modo allo spirito del tempo, quando denuncia la scomparsa di un’epoca nella quale la letteratura sedeva sul trono dell’idea umanistica di uomo e agitava con sicurezza lo scettro di medium privilegiato, evitando il confronto con altri media. Quell’epoca è esistita davvero? Personalmente non lo credo: piuttosto mi pare sia esistita un’epoca nella quale una classe dominante si è sostanziata e autodefinita per mezzo di una certa politica culturale e ha organizzato un discorso pedagogico nel quale alla letteratura veniva affidato un determinato compito, senz’altro di primo piano, rispetto al nostro presente. Guardare con malinconia il passato, vedendovi una sorta stagione d’oro, è, si sarebbe detto un tempo, una forma particolarmente astuta di falsa coscienza. Come se, faccio per dire, le prese di posizione di Bembo, di Leopardi, di Montale, di Fortini o di chi volete, prima dell’’89, abbiano mai significato qualcosa per il pellaio, il contadino, l’operaio metalmeccanico o il salumiere. O come se la crisi del sapere umanistico impedisse a ciascuno di noi di insegnare in autonomia letteratura ogni anno a centinaia di studenti, molti dei quali, proprio per il fatto di iscriversi in un corso di laurea umanistico in tempi di crisi, appaiono decisamente motivati. Secondo. Nella stretta contemporaneità,  proprio quando il nostro rapporto con la realtà raggiunge il massimo grado di prospettivismo, il discorso pubblico non distingue più realtà e verità. Anche in questo caso, la critica partecipa a suo modo allo spirito del tempo, non perché, come pensa qualcuno, i nostri narratori ritornano alla realtà dopo decenni di astrazione, ma semplicemente perché alcune strategie retoriche di rappresentazione del reale sono scambiate dai lettori e, spesso, anche dagli stessi scrittori per la realtà, così che la ricerca del vero avviene sul modello delle scienze, come tentativo di approssimazione e adeguamento al reale simbolizzato, appunto la realtà, disconoscendo la funzione specifica della verità letteraria, che è storicamente, dall’illuminismo al postmoderno, di ordine interpersonale o di rivelazione, come Todorov ha insegnato una volta per tutte.

2. Ecco che solo richiamandosi alla centralità del canone a parte objecti nel Novecento e, hybris, persino ai nostri giorni, alcuni fenomeni letterari possono essere spiegati non idealisticamente, cioè non come se le idee avessero gambe e muscoli, ma attraverso lo studio dei complessi rapporti che interconnettono materialmente la realtà e la rappresentazione letteraria.

La discrasia tra l’opera letteraria e la lingua comune nella tradizione italiana, di cui, come dicevo, rendono conto Ojetti e Gramsci, in due momenti diversi della nostra modernità, è evidentemente un riflesso di precise e condivise scelte di codificazione della lingua letteraria poste dal canone a parte objecti, difese dall’esercizio critico o, talvolta, criticate, e dunque riconosciute come rilevanti, che emergono proprio in momenti in cui forme di democratizzazione del discorso pubblico impongono una ridefinizione della composizione della classe dirigente. Quando Bembo realizza l’impresa normativa delle Prose della volgar lingua, proponendo come universalmente noto un canone fondato sul fiorentino illustre trecentesco, rappresentato dalla poesia petrarchesca, si preoccupa di distillare la lingua letteraria da qualsiasi caduta stilistica, ovverosia dal rischio che in essa si potesse ritrovare la goffaggine e la rozzezza della lingua parlata. Sebbene la prosa, il cui modello di riferimento era Boccaccio, potesse persino concedersi, nella rappresentazione del racconto, forme di imitazione della lingua comune, la trasmissione dei contenuti letterari alla posterità doveva avvenire per via di un monolinguismo tanto illustre quanto arcaicizzante: così, anche di Boccaccio, l’invito era di prendere le grandi cornici, in cui l’autore si esprimeva con la propria lingua, e non i momenti di imitazione del parlato popolare. A qualsiasi teoria eclettica e alla superiorità del fiorentino a lui contemporaneo, Bembo poteva facilmente replicare che l’imitazione del modello petrarchesco garantiva sicuramente il parlare più illustre. In questa scelta è implicita tuttavia una preferenza di genere: l’identificazione della poesia con le forme della lirica (e l’emarginazione per esempio della poesia narrativa o della poesia didattica), come si sa, vengono da qui. E da qui viene anche la difficile sovrapponibilità dell’a parte objecti e dell’a parte subjecti del nostro canone, perché se è vero che come scrive Roberto Bigazzi «ai fini patriottici non si fa distinzione di genere letterari» (2001: 119), pure la formalizzazione di determinate proprietà discorsive in un genere egemone fa sì che i singoli testi vengano prodotti e fruiti in base alla norma costituita da tale codificazione. Non può non venire in mente, a questo proposito, la difficile collocazione del Dante della Commedia nel corso dei secoli, fino al Novecento, dove ancora, come si sa, Croce (1922: 55 e sgg.) indicava che la ‘struttura’ dell’opera dovesse assolutamente disgiungersi dalla poesia, ovvero la «fede oltramondana», per usare la sua terminologia, e il «fortissimo sentimento delle cose mondane» dovevano considerarsi non «intrinseche», né «generatrici» né «dominantis rispetto al momento lirico. E, ancora, persino in un critico d’eccezione come Gianfranco Contini, qualche decennio più tardi, poteva ritrovarsi, con diversa metafora, un’idea non del tutto diversa da quella di Don Benedetto, se, come dichiarava nei giorni delle celebrazioni per il centenario del 1965, dal bel Libretto potevano espungersi arie straordinarie. Secondo Contini, come secondo Croce, insomma «l’esecuzione verbale, da verificare con meraviglia e sgomento ad ogni apertura di pagina» era predominante «sulla costruzione e lo sviluppo narrativo» (Contini 1970: 477).

3. Se questo dibattito sulla poesia è noto, anche grazie al lavoro di decostruzione operato tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta dalla neoavanguardia, molto più complesso è quello sulla prosa. Rispetto a ciò, infatti, occorre considerare che la tradizione della prosa ha subito una spezzatura, un’interruzione che la poesia non ha mai patito. Il declino della trasmissione dell’esperienza tra il Seicento e l’Ottocento, provoca infatti la crisi delle forme letterarie in cui l’esperienza si poneva come autorità, ovverosia, da una parte il proverbio e la massima, al cui posto troviamo adesso lo slogan, dall’altra il racconto orale. Il soggetto dell’esperienza e quello della conoscenza vengono come sovrapposti a partire dalla rivoluzione della scienza moderna e la legittimazione della verità avviene da quel momento in poi attraverso forme di esperienza controllate, misurate e contingentate. L’esperienza tradizionale è deprivata così del proprio valore. Divenendo calcolabile essa perde infatti la propria autorità. L’esperimento, in tal senso, è esattamente la trasformazione dell’esperienza nel luogo della conoscenza. L’espropriazione dell’esperienza determina una rivoluzione dei generi letterari (e dunque dell’ideologia che aveva favorito la formalizzazione di specifici atti linguistici ricorrenti). Ciò va di pari passo con il nascente diritto di un’immensa moltitudine di uomini a lasciare tracce, per dirla con il titolo di un paragrafo di un importante intervento di Guido Mazzoni (2015). L’idea moderna secondo cui gli individui sono differenze è il presupposto implicito dei generi letterari egemoni nella modernità. Tali generi, infatti, «sono concepiti per lasciar dilagare la differenza, l’idiosincrasia, non per ridurla» (Mazzoni 2015: 7). La storia del diritto a lasciare tracce si intreccia profondamente soprattutto con la storia del romanzo moderno. Mentre le scienze dell’anima Cinque e Seicentesche si trasformano nella moderna psicologia e la riflessione sulla vita sociale dà progressivamente vita alla sociologia, rendendo materia di conoscenza ciò che prima apparteneva al campo dell’esperienza, il romanzo inizia a raccontare, per esempio con Defoe e Fielding, «vite simili a quelle puramente private dei lettori» (ivi: 3), comprendendo così al proprio interno le esistenze di quegli individui non rappresentativi che per millenni la cultura europea aveva «confinato in un sottomondo culturale» (ivi: 4). Insomma, come scrive Mazzoni, «la letteratura europea diventa capace di raccontare le particolarità minute della vita sociale proprio quando, dall’altro lato dello spettro conoscitivo, sorgono scienze fondate sul presupposto che le differenze tra individui possono essere cancellate e riportate a centri di gravità, a leggi concettuali e a formule matematiche» (ibidem). Ma questo successo del romanzo coincide, ovviamente, con la svalutazione delle narrazioni della tradizione orale, ovvero di quelle stesse forme deputate alla trasmissione dell’esperienza e, allo stesso tempo, di un’idea di letteratura come progressivo adeguamento ad una tradizione colta. Ciò spiega, forse, la difficile collocazione della narrativa all’interno dei palinsesti anche contemporanei del nostro canone a parte subjecti. Da un lato è un problema della critica italiana, poiché la composizione ideologica disposta dal canone a parte objecti dei “quadri dirigenti” ha sovente determinato, anche sulla lunga distanza rispetto all’istituzione umanistica della nostra tradizione, una lettura del testo narrativo e quindi anche del romanzo attraverso gli strumenti storicamente deputati all’analisi del testo poetico, per cui l’elocutio ha rappresentato sempre il centro degli interessi ermeneutici a scapito di dispositio e inventio. Dall’altro è un problema legato alla natura stessa del testo narrativo in prosa, ovverosia il fatto che la riscrittura di «generi a larga divulgazione» (Bigazzi 2011: 128), prima dell’avvento della borghesia, era costruito da una élite culturalmente aristocratica che poteva tematizzare e rappresentare l’esiguo pubblico non sofisticato (per esempio delle donne) innestando il proprio discorso sulla tradizione orale del racconto. Si comunicava così l’esemplarità di un’esperienza, che veniva trasferita a chi l’ascoltava. Con l’egemonia del romanzo, in epoca moderna, quello stesso pubblico, allargatosi nel tempo fino a farsi pubblico di massa, non può che rispecchiarsi nella solitudine e nello sconcerto, come direbbe Benjamin, dello scrittore moderno: non è più l’esperienza che viene comunicata, ma la mancanza e l’impossibilità dell’esperienza. Per questa ragione il mimetismo dell’orale è così problematico nel romanzo moderno, e tanto più in una tradizione come quella italiana: la sua rappresentazione ci ricorda la nostra solitudine e la nostra perplessità (ancora Benjamin) di fronte alla vita fuori di noi.
 

[1] Penso a tutte le volte che gli stati democratici, per difendere loro stessi da pericoli politici reali, sospendono arbitrariamente la democrazia, come è stato fatto in Italia per combattere il terrorismo rosso negli anni Settanta, o negli Stati Uniti, più recentemente, per combattere l’estremismo islamico.
 

Bibliografia

Bigazzi Roberto (2001), Sulla complicità tra canone e critica, in Un canone per il terzo millennio, a cura di Ugo M. Olivieri, Milano, Mondadori.

Cataldi Pietro (2001), La poesia, il canone, il mercato. Riflessioni sulla letteratura classica e la letteratura leggera, in Un canone per il terzo millennio, a cura di Ugo M. Olivieri, Milano, Mondadori.

Contini Gianfranco (1970), Varianti e altra linguistica: una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi.

Croce Benedetto (1922), La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1921.

Lasch Christopher (1995), La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, Milano, Feltrinelli.

Luperini Romano (2001), La questione del canone, la scuola e lo studio del Novecento, in Un canone per il terzo millennio, a cura di Ugo M. Olivieri, Milano, Mondadori.

Mazzoni Guido (2015), I nomi propri e gli uomini medi. Romanzo, scienze umane, democrazia, «Between», n. 5.

 

 

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