Privacy Policy L’inchiesta di massa sull’attività neofascista promossa dalle regioni nel 1975: il ruolo dell’opinione pubblica e della stampa. Il caso umbro
Valerio Marinelli Vol. 12, n. 2 (2020) Storia

L’inchiesta di massa sull’attività neofascista promossa dalle regioni nel 1975: il ruolo dell’opinione pubblica e della stampa. Il caso umbro

“Ogni qualvolta la polizia e la magistratura si muovono sulle piste nere, Perugia e l’Umbria vengono tirate in ballo […] D’altro canto, a nessuno sfugge che l’Umbria, geograficamente e politicamente, sia reputata un terreno ‘interessante’ per il neofascismo”.[1] Le frasi succitate, estrapolate da un articolo comparso su “La Nazione” il 7 aprile 1975, testimoniano la rilevanza del caso umbro in merito all’attività neofascista della prima metà degli anni Settanta. In quel periodo, infatti, in specie a Perugia, oltre al Fronte della Gioventù (Fdg) e al Fronte universitario d’azione nazionale (Fuan), emanazioni dirette del Movimento sociale italiano (Msi), sono particolarmente intraprendenti, dinamiche e radicate svariate formazioni della destra extraparlamentare. Tra queste spiccano Ordine nuovo, Europa e civiltà, il Circolo Ezra Pound e la Lega degli studenti greci. Il capoluogo regionale è uno spazio fertile per lo scontro ideologico-generazionale. Perugia è una città con una vasta popolazione studentesca e, grazie alla presenza dell’Università per Stranieri, accoglie giovani provenienti da tutto il mondo. Si tratta di ventenni e trentenni spesso inquadrati in associazioni ben connotate dal punto di vista politico. Inoltre, nel Perugino vivono diversi esponenti della destra estremista di caratura nazionale che vantano importanti collegamenti con le aggregazioni neofasciste della capitale. Ma, per certi versi, le condizioni che permettono al neofascismo di far presa in Umbria vengono da lontano: la regione fu uno dei contesti in cui il fascismo attecchì meglio e dove nel dopoguerra l’epurazione degli uomini del regime risultò meno decisa. Tornando ai primi anni Settanta, se a Perugia l’estremismo di destra è inserito nel quadro di una società civile plurale e di un’opinione pubblica articolata, a Terni – capoluogo di provincia per volontà di un Mussolini preoccupato di tenere sotto controllo le potenzialità sovversive delle masse operaie[2]– sconta il protagonismo di un Pci capace di imporsi su un palcoscenico socio-politico non altrettanto complesso e composito. Nella cornice politica umbra, sono le sinistre (comunisti e socialisti) a detenere le principali responsabilità di governo; democristiani, repubblicani, liberali e socialdemocratici svolgono un ruolo di opposizione nella maggioranza delle amministrazioni locali e – ça va sans dire – in Consiglio regionale.

Dal 1969 al 1975 vengono compiuti in Italia 4.384 atti di violenza ispirati da una manifesta matrice politica. L’85% di questi si concentra in appena 16 province su un totale di 95.[3] Nello stesso arco di tempo, in Umbria si registrano 211 fatti riconducibili all’oltranzismo nero: ciò vuol dire che, in media, ogni 10 giorni si attesta nel territorio un’azione di marca fascista o parafascista.[4] È senza dubbio un dato significativo per una realtà di circa 800.000 abitanti priva di grandi agglomerati urbani. Non sorprende, allora, che già nel 1973, l’Umbria sia tra le Regioni maggiormente convinte di promuovere un’inchiesta di massa sui fenomeni inerenti all’estremismo di destra. Tuttavia, solo a seguito dello shock causato dalla strage di Brescia l’indagine prende corpo. Il 1974 è l’anno in cui l’aggressività neofascista raggiunge l’apice, ma è anche il momento nel quale, a fronte di dirimenti mutamenti politici nazionali e internazionali che tendono ancor più a isolare rigurgiti autoritari e velleità eversive, l’opinione pubblica italiana comincia a sospingere con vigore la riscossa delle istituzioni repubblicane.[5] 

Le Regioni avanzano l’idea dell’inchiesta a Torino nel dicembre 1973, durante una riunione degli Uffici di Presidenza dei Consigli regionali indetta per stabilire un programma comune in occasione delle imminenti celebrazioni del XXX anniversario della Resistenza e della Liberazione. Il progetto dell’indagine rientra insomma nei tanti intendimenti relativi alle iniziative celebrative e commemorative. Il vago impegno si trasforma in ipotesi concreta su impulso del Consiglio regionale lombardo, convocatosi in via straordinaria a Brescia il 30 maggio 1974 (due giorni dopo la tragica deflagrazione) per stimolare il solidale risveglio delle istituzioni democratiche. L’assemblea si chiude con un ordine del giorno nel quale viene sottolineata l’urgenza di un incontro tra le Regioni e il capo dello Stato: l’obiettivo è in primis quello di evidenziare come la questione della difesa democratica necessiti del fattivo contributo dei soggetti istituzionali sub-nazionali.[6] Il 24 giugno, a Milano, presso palazzo Isimbardi, i rappresentanti di tutti i Consigli regionali italiani discutono e approvano la proposta di un’inchiesta finalizzata a denunciare responsabili, complici, finanziatori e mandanti di attentati, intimidazioni e violenze di chiara estrazione neofascista.

L’indagine, evolutasi in elemento qualificante delle celebrazioni del XXX anniversario della Liberazione, serve ad alimentare un positivo rapporto tra i neonati enti regionali e l’opinione pubblica. A seguito dello scoppio avvenuto in piazza della Loggia, la rabbia popolare esplode dando vita a molteplici manifestazioni di protesta spontanee, o meglio, non guidate da partiti o altre formazioni politiche consolidate. Le Regioni cercano dunque di cavalcare i fermenti sociali emergenti, puntando a mobilitare anche i settori della cittadinanza moderata divenuti insofferenti alla progressione delle soperchierie neofasciste. Giunte e Consigli provano, in tale cornice, a surrogare, supportare e integrare il lavoro di uno Stato da più parti e a più voci accusato di aver sottovalutato o addirittura di aver favorito le “trame nere”. In sintesi, sulla scorta del contesto maturatosi, le Regioni, attraverso l’inchiesta, tentano di dilatare il proprio peso politico, di espandere le proprie competenze, di aumentare i propri margini di intervento nei frastagliati circuiti relazionali territoriali, di agganciare spaccati di opinione pubblica desiderosi di interlocutori istituzionali alternativi. Con la “benedizione” del presidente della Repubblica Giovanni Leone, incontrato al Quirinale il 24 luglio 1974 dalle delegazioni dei Consigli regionali, l’operazione acquisisce una solida copertura politica. Dinanzi a questa situazione, il Msi non rimane inerte e silente. È opportuno ricordare che la nascita delle Regioni, frutto di un sensibile disgelo nelle relazioni tra Pci e Dc, era stata pervicacemente avversata dai missini. Il partito di Almirante vedeva in esse la proliferazione dei particolarismi locali e, soprattutto, un presidio istituzionale strategico per le sinistre.[7] Quando l’inchiesta sta per prendere abbrivio, all’interno dei Consigli regionali la Fiamma tricolore – salvo alcuni casi rilevabili nel Meridione – si trova quindi marginalizzata anche più di quanto non lo sia a livello nazionale. L’indagine, almeno sul piano ufficiale, non tocca in modo diretto il Msi. Ciononostante, il naturale posizionamento, la sistematica connessione con l’arcipelago delle organizzazioni estremiste e la patente mescolanza delle rispettive militanze di base, induce il principale soggetto della destra politica italiana a contestare sin da subito con enfasi l’opzione messa in campo dalle Regioni. Le Commissioni d’inchiesta, che saranno composte secondo criteri inclusivi, ossia all’insegna di un ampio pluralismo, non godranno di conseguenza dell’apporto missino. In Umbria, la critica verso l’indagine è argomentata con efficace chiarezza nella pagina locale de “Il Tempo”, giornale di schietto orientamento conservatore[8]: “Sembra che il Pci (o forse la parte cosiddetta oltranzista e meno aperta) abbia fortemente voluto l’inchiesta regionale sul fascismo. E fin qui nulla di male, se solo si fosse trattato di un’inchiesta seria, volta ad accertare, fuori di possibili dubbi, responsabilità riconducibili a una provata violazione di principi costituzionali […] Si sa che in taluni ambienti del comunismo si è ingaggiata oggi una corsa all’antifascismo fine a sé stesso, e non per i begli occhi della Repubblica e della Democrazia, bensì per vieto e abusato giuoco di potere. Perciò, l’inchiesta promossa dalla Regione minaccia di trasferirsi in un invito alla delazione per la pubblicazione di liste di proscrizione, nel calderone delle quali potrebbero essere posti alla berlina molti avversari politici che con il fascismo non hanno niente a che spartire”.[9] Testate come “L’Unità” e “Paese sera”, collocate sulla linea comunista, plaudono invece senza indugio alla decisione del Consiglio regionale. Le preoccupazioni critiche avanzate da “Il Tempo” sono probabilmente un ammonimento contro il rischio di emulare sotto le insegne dell’inchiesta la corsara controinformazione e lo spregiudicato dossieraggio elaborato sia a destra che a sinistra.[10] Negli anni Settanta, infatti, comunisti e neofascisti stilano e distribuiscono accurati dossier nei quali sono riferite le cronologie delle aggressioni, i nominativi dei relativi autori, tratti somatici, abitudini e indirizzi domiciliari dei militanti più facinorosi. I testi compilati dal Pci e dall’extraparlamentarismo rosso non riguardano esclusivamente lo stragismo, il golpismo e il terrorismo di scala nazionale. Contando su reti informative piuttosto estese e capillari, i comunisti redigono corposi fascicoli sulle azioni squadriste che travagliano piccole città, borghi e paesi; azioni che, di solito, sono prive di risonanza mediatica. Mentre il Pci mantiene un approccio abbastanza prudente, i gruppi della sinistra extraparlamentare utilizzano spesso le informazioni reperite per minacciare i rivali.[11] I dossier neofascisti hanno un’accezione differente, giacché sembrano strutturalmente propedeutici a ciò che la sociologia definisce “eliticidio”, ossia l’imprigionamento o l’eliminazione delle personalità ostili all’avvento di un regime autoritario.[12] Le opposte fazioni, attraverso la controinformazione, perseguono anche uno scopo comune: dimostrare che gli attacchi provengono da una sola parte e chi subisce è per forza di cose costretto a cautelarsi e proteggersi. Controinformazione, dossieraggio e violenza politica sono pertanto elementi strettamente correlati. Rispetto invece all’informazione ufficiale, la destra estremista dei primi anni Settanta sfrutta meglio della sinistra radicale un sistema comunicativo in ascesa e sempre più incline a dilatare le notizie: gli atti eclatanti, amplificati come mai in passato, ispirano in contesti diversificati fenomeni imitativi non controllabili né prevedibili.[13]

In  merito all’inchiesta, bisogna notare che il 1969 quale terminus a quo dell’opera di ricognizione e di analisi è pressoché sottinteso sin dal principio. In un convegno dal titolo “Giustizia e trame nere” – organizzato a Perugia nella primavera 1975 dalla Regione Umbria -, Marco Sassano, giornalista dell’“Avanti”, sottolinea che “oramai pure nell’immaginario collettivo il ’69 rappresenta l’avvio di una stagione di terrore”.[14] Questa nozione non è dunque in discussione alla Conferenza nazionale degli Uffici di Presidenza svoltasi a Reggio Calabria il 15 e il 16 dicembre 1974 per dibattere e sancire i criteri cui debbono attenersi le Regioni nello sviluppare il loro lavoro. In tale sede, al fine di marcare il carattere “di massa” dell’indagine, viene progettato e prescritto il coinvolgimento dei rappresentanti delle pubbliche istituzioni (Comuni e Province in primis), dei partiti, dei sindacati, delle associazioni antifasciste e di altri opinion leader di caratura regionale (intellettuali, magistrati, avvocati, imprenditori, etc.). Oltre ad ascoltare le tante testimonianze, le Commissioni Speciali istituite dai singoli Consigli sono chiamate a raccogliere materiali di varia natura: in particolare articoli di cronaca, opuscoli, periodici e riviste, documenti giudiziari e volantini di propaganda. Ogni Comune è poi tenuto a inviare un resoconto sull’attività fascista e parafascista registratasi nel territorio di competenza durante il torno di tempo considerato. Vagliate le documentazioni, alle Commissioni spetta divulgarne i contenuti tramite giornali, radio e tv. La pubblicità degli esiti dell’inchiesta è chiaramente ritenuta fondamentale. In proposito, occorre rammentare che intorno alla metà degli anni Settanta si assiste alla diffusione di decine di libelli tesi a mettere in guardia la cittadinanza dalla minaccia neofascista. Si tratta di scritti brevi che insistono perlopiù sull’esigenza di dare completa attuazione alla Costituzione repubblicana, di riformare il codice civile e penale ancora di matrice fascista, di sostenere una politica del decentramento amministrativo per soppiantare l’eredità accentratrice del Ventennio. In questi volumetti, editi a ridosso del trentennale della Liberazione, il tema del contrasto alle intemperanze neofasciste si intreccia all’esaltazione della Resistenza.[15] Lo sforzo delle Regioni, quindi, si forgia in coerenza al sentiment generale.

Terminata la fase istruttoria, la Commissione Speciale umbra entra concretamente in funzione il 4 febbraio 1975 con l’impegno di chiudere i lavori entro maggio. A presiederla è l’avvocato comunista ed ex partigiano perugino Francesco Innamorati, che in parallelo esercita pure il ruolo di vicepresidente del Consiglio regionale e di presidente della Consulta per le celebrazioni del XXX anniversario della Liberazione.[16] Come da programma, alle audizioni convocate dalla Commissione intervengono leader politici e sindacali, uomini e donne delle istituzioni e del mondo della cultura, membri di associazioni democratiche e antifasciste. Nondimeno, le audizioni più vivaci e degne di maggior interesse sono quelle in cui partecipano gli esponenti delle organizzazioni politiche giovanili e dei collettivi studenteschi. Mentre i giovani comunisti, socialisti e democristiani sono favorevoli al modo di procedere della Commissione, i giovani repubblicani mostrano una serie di perplessità sull’inchiesta stessa. Tutti, però, dichiarano di essere stati diretti testimoni di qualche episodio di violenza perpetrato dai “neri”. In materia di incursioni, pestaggi e attentati neofascisti, alquanto vividi e accalorati sono i racconti dei ragazzi iscritti ad alcune formazioni universitarie della sinistra – ad esempio l’Uda (Unione democratica antifascista) – e a certe aggregazioni dell’extraparlamentarismo rosso – tipo Avanguardia operaia, IV Internazionale e Lotta continua.[17] D’altro canto, la violenza come metodo di lotta politica afferisce in specie alle schiere militanti nate tra la metà degli anni Quaranta e la metà degli anni Cinquanta. Una generazione che estrinseca in ogni gesto, in ogni pensiero, in ogni parola una pulsione politica. Anche l’abbigliamento è di conseguenza un segno distintivo, un simbolo di un’appartenenza ideologica, uno strumento per sensibilizzare o provocare l’opinione pubblica. E così, nei luoghi della socialità cittadina, capelli a spazzola, occhiali da sole e giubbotti di pelle si contrappongono a barbe incolte, jens ed eschimi.[18]

Per capire come si autorappresentano i neofascisti umbri è assai utile consultare i loro numerosi ciclostilati. I volantini del Fuan e del Fdg affrontano specialmente i temi della politica studentesca, denunciando di frequente con fervore il “clerico-marxismo” dei libri di testo e i docenti che propagandano in classe teorie sinistrorse. La difesa dalla “comunistizzazione” della società comprende l’attacco a Comuni, Province e Regione. Nell’estate 1974, il Fuan scatena un’infuocata campagna verbale nei confronti dell’amministrazione regionale, rea di aver erogato una cifra eccessiva per finanziare il Festival del jazz, “un ritrovo di teppisti rossi – lamenta l’organizzazione universitaria – che strumentalizzano la musica per biechi fini politici”.[19] Raramente i volantini del Fuan e del Fdg accennano a fatti di violenza; quando lo fanno cercano soprattutto di negare o contraddire le versioni date dalle formazioni di sinistra.

I ciclostilati di Europa e civiltà toccano le classiche tematiche dell’attualità politica da un’angolatura intellettuale (o pseudo-intellettuale). Almeno a parole, Europa e civiltà si proclama contraria alla violenza. Ecco cosa si legge in un foglio diffuso a Perugia nella primavera 1973: “Giovani! Non è con i muscoli e le armi che si conquista l’autorità, e senza autorità non c’è potere”.[20] In verità, molti membri affiliati a questa sigla prendono regolarmente parte a sortite squadriste, attentanti, aggressioni e tafferugli. Un taglio culturale lo adotta pure il Circolo Ezra Puond, dai cui stampati affiora – tra l’altro – una spiccata sensibilità per le questioni internazionali. L’associazione argomenta contro l’imperialismo, contro il sistema dei partiti, l’individualismo, il materialismo, il razionalismo, etc.[21] Gli organi di informazione nazionali, al pari dei giornali e delle tv locali, sono per i neofascisti umbri la longa manus di un potere dominante che intende reprimere i legittimi dissensi delle destre. Tale refrain è anche nel repertorio di Ordine nuovo, aggregazione che adopera un lessico estremamente violento. A comprovarlo, alcuni titoli comparsi sul suo settimanale tra il 1971 e il 1972: È tempo di lotta senza quartiere; La parola d’ordine è strategia di attacco e la sortita degli eroi capovolgerà la storia.[22] Battere con la forza la repressione dello Stato democratico; Negare i partiti, il sistema e le istituzioni democratiche.[23] Ordine e Rivoluzione a qualunque costo; Ordine nuovo strumento di lotta alla democrazia e al marxismo.”[24] L’incipit di qualche volantino recita persino il motto delle SS naziste: “il nostro onore si chiama fedeltà”.[25]

Se comunisti e socialisti, tramite i propri organi di stampa, stigmatizzano con inquietudine le insorgenze neofasciste sin dagli anni Sessanta, democristiani, repubblicani e liberali assumono posizioni più nette a partire dal 1972-’73. Tuttavia, fra i partiti dell’arco costituzionale restano sempre sfumature o vedute discordi. Le distinzioni, in Umbria, ben si percepiscono in una conferenza stampa convocata dalle segreterie regionali di Pci, Psi, Dc e Pri nell’aprile 1975 per condannare il ferimento di uno studente perugino da parte di un noto extraparlamentare di destra. Il segretario comunista Giampaolo Bartolini ribadisce innanzitutto la necessità di una lotta antifascista unitaria e popolare, poi aggiunge, con vena sferzante, che “mentre la polizia agisce, c’è un ritardo obiettivo e ricorrente della magistratura ormai insopportabile”.[26] Optando per toni molto più timidi e misurati, con Bartolini concordano in sostanza sia il segretario del Psi Luciano Lisci sia il segretario del Pri Claudio Spinelli.[27] L’esponente democristiano Livio Braconi riduce invece il problema dell’attività fascista a uno dei tanti fenomeni di criminalità che scuotono l’ordine pubblico. Ciononostante, sostiene con fermezza che “bisogna chiedere alla magistratura di ripulire presto la città dai fascisti”.[28]

Mentre le testate della sinistra – ad esempio “L’Unità”, “Paese sera” e “Avanti!” -, già dal 1969 denunciano le collusioni tra l’eversione nera, la magistratura, la polizia e lo Stato, quotidiani quali “Il Messaggero”, “Il Corriere della sera”, “Il Popolo” e “La Nazione”, legati ai partiti moderati e conservatori, seguono un indirizzo improntato alla prudenza e alla fiducia verso il governo e le autorità statali. Del resto, il giornalismo nato nel dopoguerra si caratterizza per un alto tasso di parallelismo politico; è un giornalismo militante orientato al commento, vincolato alle sub-culture politiche vigenti e dipendente in larga quota dal settore pubblico.[29]  

A valle della strage di Brescia e della bomba sul treno Italicus, dopo la secca sconfitta della Dc nel referendum sul divorzio e in concomitanza al risanamento dei Servizi segreti guidato dall’allora ministro della Difesa Giulio Andreotti, gli organi di informazione, anche sospinti da un’opinione pubblica esasperata e da un clima internazionale in via di mutamento, iniziano a supportare con zelo la riscossa democratica del paese. Insomma, con il modificarsi dell’atteggiamento dei poteri costituti nei confronti dell’estrema destra, i giornali e le tv aumentano il livello di attenzione sulle violenze commesse dai “neri”. Questa rinnovata attenzione, sul piano locale, si riscontra plasticamente nel modo dei giornali di raccontare due accoltellamenti di cui sono colpevoli famigerati neofascisti umbri. Un accoltellamento avviene il 25 settembre 1972 in una frazione di Perugia: la vittima è il comunista Aldo Seguenti; un altro avviene il 29 marzo 1975 in pieno centro cittadino: l’aggredito è il giovane di Avanguardia operaia Angelo Caporali. Sull’episodio del 1972 sono spese poche battute e nel giro di una settimana la vicenda scompare dagli articoli dei principali quotidiani. Anche i partiti, a eccezione del Pci, si limitano a uno sdegno formale e compassato che di sicuro non incentiva la stampa a reiterare gli interventi. Diversamente, l’accoltellamento del 1975 diventa un vero e proprio caso mediatico. Appresa notizia della violenza, il presidente della Commissione Speciale si mobilita con prontezza e, in solidarietà al ferito, indice una manifestazione a cui aderiscono centinaia di persone. Non solo: Innamorati invita il prefetto ad agire con tempestività e mette da subito a disposizione della Questura i materiali raccolti dal suo gruppo di lavoro. I giornali parleranno per almeno due mesi del misfatto, riportando con serrata cadenza la descrizione somatica e i trascorsi di vita dell’assalitore frattanto latitante, illustrando le ricerche della polizia e, infine, narrando con dovizia di particolari la cattura del reo. La Commissione Speciale comporrà un’ampia rassegna stampa sull’intera vicenda.[30] Una palese inversione di tendenza degli apparati dell’informazione si apprezza comunque già nel 1974: la bomba deflagrata la notte del 23 aprile all’ingresso della Casa del popolo di Moiano (frazione di Città della Pieve) desta infatti un prolungato interesse dei media sia locali che nazionali.[31] 

Come detto, quando le organizzazioni neofasciste cominciano a trovarsi in difficoltà a causa dell’impegno dello Stato nel combatterle, contrattaccano con impeto, prendendo di mira anche gli organi di informazione, considerati decisivi alleati della repressione. Tra il ’74 e il ’75 si registra dunque un’impennata di lettere minatorie inviate ai giornali; “La Nazione” e “Il Messaggero” sono quelli maggiormente investiti dalle minacce neofasciste. Alle loro redazioni regionali giungono in più circostanze buste contenenti proiettili e finti pacchi bomba accompagnati da messaggi deliranti. Le intimidazioni subite compattano i quotidiani locali di sinistra e di centro nella lotta antifascista, la quale viene intensificata garantendo risonanza pure a episodi minori: alle scritte inneggianti Mussolini, alle svastiche via via scarabocchiate sui muri o sulle saracinesche dei negozi, la stampa umbra riserva ora uno spazio che mai aveva concesso prima.

Una volta conclusa, a discapito delle aspirazioni originarie, l’inchiesta non susciterà accesi confronti, riflessioni aperte, significativi dibattiti sui media o tra le molteplici soggettività della società civile, ma cadrà in un repentino oblio. Al velo di silenzio che coprirà l’indagine umbra non farà da contraltare il rumore mediatico di altre inchieste: anche in Lombardia e in Piemonte, le due regioni che dopo l’attentato bresciano si muovono con più solerzia e convinzione, gli esisti dell’operazione antifascista avranno scarso spazio nella discussione pubblica. Il motivo è duplice. In primis, l’inchiesta nasce come un atto politico, per cui il suo intrinseco valore risiede nella scelta dei Consigli regionali di allestirla e svilupparla. È dunque l’avvio delle Commissioni Speciali che innesca il dibattito funzionale agli obiettivi dei partiti democratici, ai quali non interesserà poi tanto rimarcare attraverso l’analisi dei dati emersi un messaggio in buona sostanza già fornito e veicolato. In secondo luogo, sul finire del 1975, l’Italia si trova alle soglie di una fase nuova, dove l’incipiente regressione dell’oltranzismo nero si incrocia alla definizione del “compromesso storico”, dove l’incremento della violenza rossa riconfigura le valutazioni e le priorità delle sinistre, dove lo Stato è ancora fragile ma le Regioni, rilegittimate in giugno dal voto di 34.063.567 elettori (il 92% del corpo elettorale), hanno ormai acquisito una loro stabile e solida fisionomia all’intero della geografia istituzionale del paese.

[1] Archivio storico dell’Istituto per la Storia dell’Umbria contemporanea (d’ora in poi ASISUC), Inchiesta Regione su attività fasciste e parafasciste (1969-1975), b. 9, fasc. “Ritagli stampa” , Perché a Perugia, in “La Nazione”, 7 aprile 1975.

[2] E. Rotelli, Le trasformazioni dell’ordinamento comunale e provinciale durante il regime fascista, in S. Fontana (a cura di), Il fascismo e le autonomie locali, Il Mulino, Bologna 1973, pp. 73-156.

[3] Tra il 1969 e il 1973, i neofascisti sono responsabili del 95% delle violenze, nel 1974 dell’85% e nel 1975 del 78%. D. Della Porta, M. Rossi, Cifre crudeli: bilancio dei terrorismi italiani, Il Mulino, Bologna 1986, p. 25.

[4] ASISUC, Inchiesta Regione su attività fasciste e parafasciste (1969-1975). Relazione finale, b. 12, fasc. “Appendice”.

[5] Tra i fattori nazionali che nel biennio 1974\1975 determinano e accompagnano il cambiamento della fase politica vi sono: la riforma dei Servizi segreti predisposta dal governo Andreotti, l’avvio di numerosi procedimenti giudiziari a carico di leader storici del neofascismo italiano, l’incipiente crisi politico-culturale dell’estremismo di destra e la crescente concorrenza dell’estremismo di matrice rossa. Tra i fattori internazionali occorre altresì menzionare: le dimissioni del presidente USA Richard Nixon, la caduta del regime salazarista, la fine del regime dei colonnelli in Grecia, la morte del Caudillo in Spagna. S. Ferrari, I denti del drago, Edizioni Biblioteca Franco Serrantini, Pisa 2013, p. 92 e p. 127.

[6] ASISUC, Inchiesta Regione su attività fasciste e parafasciste (1969-1975), b. 1, fasc. “Materiale altre Regioni”, Colpire il torbido gioco della provocazione e della trama: l’ordine del giorno approvato a Brescia, in “Cronache lombarde”, n. 37, 1974, p. 43.

[7]  P. L. Ballini, M. Ridolfi, Storia delle campagne elettorali in Italia, Mondadori, Milano 2003.

[8] “Il Tempo” ha il suo riferimento politico nella destra democristiana, ma intrattiene rapporti con il mondo neofascista almeno fin dalla metà degli anni Sessanta. Naturalmente, tra il 1969 e il 1975, sono “Il Secolo d’Italia” e “Il Giornale d’Italia” i quotidiani che sviluppano le relazioni più costanti e strutturate con le frange dell’oltranzismo nero. Cfr. M. Dondi, L’eco del boato, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 87-95.

[9] ASISUC, Inchiesta Regione su attività fasciste e parafasciste (1969-1975), b. 3, fasc. “Corrispondenza”, A chi servirebbero le liste di proscrizione, in “Il Tempo”, 21 marzo 1975.

[10] P. Murialdi, La stampa italiana nel dopoguerra (1943-1972), Laterza, Bari 1974, p. 16 e seguenti.

[11] P. Violi, I giornali dell’estrema sinistra, Garzanti, Milano 1977, pp. 95-113.

[12] G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, Einaudi, Torino 2009, p.  170.

[13] R. Speciale, Gli anni di piombo, De Ferrari, Genova 2014, p. 5.

[14] Marco Sassano individua, tra il 1969 e il 1975, quattro ondate di terrorismo che si differenziano per metodi e obiettivi. A suo avviso, nel 1969 il disegno della violenza nera è orientato a scaricare la responsabilità degli attentati e delle provocazioni sui “rossi”; nel 1970, il neofascismo attacca la democrazia facendo leva, da un lato, su originali moti popolari come quelli di Reggio Calabria e L’Aquila, dall’altro, su tentativi di veri e propri golpe, come quello orchestrato da Junio Valerio Borghese; nel 1972 l’offensiva della destra estremista si esprime eminentemente con mirati delitti politici e non più con attentati dinamitardi indiscriminati, i quali ritornano con folle virulenza nel 1974. ASISUC, Convegno “Giustizia e trame nere”, b. 17, fasc. “M. Sassano”.

[15] Tra le brevi pubblicazioni genericamente menzionate se ne annoverano due edite dalla Lega per le autonomie e i poteri locali piuttosto interessanti. Si tratta di E. Santarelli, Fascismo e neofascismo, Roma 1974 e di G. Verni, Dalla Resistenza a oggi, Roma 1975. Quest’ultimo volume contiene una prefazione di Ferruccio Parri.

[16] ASISUC, Inchiesta Regione su attività fasciste e parafasciste (1969-1975), b. 3, fasc. “Iter legislativo”.

[17] ASISUC, Inchiesta Regione su attività fasciste e parafasciste (1969-1975), b. 3, fasc. “Resoconti riunioni”.

[18] M. Franzinelli, La sottile linea nera, Rizzoli, Milano 2008, pp. 82-87.

[19] ASISUC, Inchiesta Regione su attività fasciste e parafasciste (1969-1975), b. 11, fasc. “Volantini Fuan-Fronte della gioventù (1968-1975)”, Un Festival per teppisti con i soldi dei cittadini umbri, volantino ciclostilato dal Fuan perugino il 30 luglio 1974. Cfr. anche A. Stramaccioni, Storia delle classi dirigenti in Italia. L’Umbria dal 1861 al 1992, Edimond, Città di Castello 2012, pp. 461-475.

[20] ASISUC, Inchiesta Regione su attività fasciste e parafasciste (1969-1975), b. 11, fasc. “Volantini Europa e civiltà (1971-1974)”, La via dell’odio, in “Europa e civiltà”, rivista ciclostilata dall’omonima associazione il 16 aprile 1973.

[21] ASISUC, Inchiesta Regione su attività fasciste e parafasciste (1969-1975), b. 11, fasc. “Volantini Circolo Ezra Pound (1972-1974)”, cfr. Il mito della scienza, documento ciclostilato dal Circolo Ezra Pound di Perugia il 3 febbraio 1973; Società mitica e società organica, Smettiamocela!, Social-democrazia, volantini ciclostilati dal Circolo Ezra Pound di Perugia dal novembre al settembre 1972.

[22] “Ordine nuovo”, n. 3, 25 novembre 1971.

[23] “Ordine nuovo”, n. 2, 11 novembre 1972.

[24]  “Ordine nuovo”, n. 1, 4 novembre 1972.

[25] Il Movimento politico Ordine Nuovo è sciolto per decreto nel novembre 1973 dall’allora ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani.

[26] ASISUC, Inchiesta Regione su attività fasciste e parafasciste (1969-1975), b. 10, fasc. “Studente accoltellato dai fascisti”, Unanimi i partiti antifascisti nella critica alla magistratura, in “Paese sera”, 4 aprile 1975.

[27] Ibidem.

[28] Ibidem.

[29] Il giornalismo italiano rientra nel cosiddetto “modello mediterraneo”, al quale si ascrivono anche il giornalismo spagnolo, francese, portoghese e greco. Differentemente, il modello “democratico-corporativo”, che appartiene ai paesi dell’Europa centrale, presenta un sostanziale equilibrio tra stampa politica e stampa commerciale. Quest’ultima è preminente nel modello “liberale”: in Gran Bretagna, Stati Uniti, Irlanda e Canada il giornalismo è di fatti molto legato al mercato e molto poco allo Stato e ai partiti politici. Cfr. D.C. Hallin, P. Mancini, Modelli di giornalismo, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 67-69.

[30] ASISUC, Inchiesta Regione su attività fasciste e parafasciste (1969-1975), b. 10, fasc. “Studente accoltellato dai fascisti”.

[31] ASISUC, Inchiesta Regione su attività fasciste e parafasciste (1969-1975), b. 10, fasc. “Rassegna stampa: fascismo in Umbria (marzo-settembre 1974)”, D. Allegra, Moiano: dal criminale attentato nuovo vigore antifascista, in “L’Unità”, 25 aprile 1974.

 

Valerio Marinelli è ricercatore Isuc (Istituto per la storia dell’Umbria contemporanea) e cultore di storia contemporanea presso il Dipartimento di Lettere-Lingue, letterature e civiltà antiche e moderne dell’Università di Perugia. 

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