Privacy Policy Il pensiero suono. Filosofia, vitalismo e musica
Alberto Simonetti Vol. 10, n. 2 (2018) Filosofie

Il pensiero suono. Filosofia, vitalismo e musica

Italiana in Algeri di G. Rossini, 2009
Foto di scena con Vivica Genaux (Isabella), dal II° atto dell’Italiana in Algeri, opera lirica in due atti di Gioacchino Rossini, su libretto di Angelo Anelli (andata in scena per la prima volta a Venezia il 22 maggio 1813), Teatro Regio di Torino, 4-9 marzo 2009, foto: Ramella&Giannese.

 

Vi è indubbiamente un ritmo del pensiero. Una cadenza, una tempestività ma anche un ritardo, un controtempo, un battere e levare, una tensione armonica. Fare filosofia non collima semplicemente con l’armonia ma, in realtà, con la complessa intelaiatura di una partitura classica con tutte le sue componenti. Non si tratta soltanto di una metafora o di un accostamento poetico; il “pensare” in quanto tale determina necessariamente un andamento che interroga e traccia segni sia all’interno della dimensione estetica che in quella logico-argomentativa. La categoria di espressione è propriamente filosofica in quanto lega, commistiona e compromette il linguaggio nella sua molteplicità. Diremmo, a rigore, che il linguaggio della filosofia rende conto del molteplice. Intercettare questa dinamica vuol dire modificare radicalmente la stessa metodologia comunicativa e, in chiave paradigmatica, l’uso della scrittura aforistica ha sancito il concretarsi di tale potenza. C’è un innegabile ponte, una comunanza scenica, tra vitalismo, aforisma e musica. Il terreno comune è il pensiero, è la filosofia la cui declinazione si staglia nella capacità coniugante di queste tre forme interpretativo-affermative; per quanto concerne l’interpretazione, l’aforisma squarcia, trapassa e lascia tracce semiotiche rilevanti, così come la musica laddove un fraseggio o un’aria sembrano intagliare la realtà. Tutto si relaziona affermativamente con un pulsare che riporta il pensiero a fare i conti con la sterilità di una mera dimensione logica (seppur, per la parte che le concerne, decisiva) poiché il coglimento di una rete plurale di cui è costituito il reale non può che imporsi come vitalità. Il molteplice pensato è la vita nella sua matassa, lungo le sue linee e la musica accanto alla scrittura aforistica possiedono un modus privilegiato di ingresso in essa. La torsione dalla trattazione tradizionale (comunque in ogni caso feconda) alla scrittura saggistica più “inattuale” ha trovato in Friedrich Nietzsche il polo magnetico di riferimento. Tuttavia, questo studio si impegna a decifrare analogie stilistico-cognitive con altri due autori di afferenza diversa: Stendhal sul piano del romanzo e Gioacchino Rossini in ambito musicale.
Nietzsche coglie già un sostrato al pensiero definito “spirito della musica”[1] e, oltre alla querelle con Wagner, esso si mantiene lungo l’intero arco della sua opera. Affiora nell’immediato il nesso con la filosofia e con la possibilità di penetrare il mondo a partire da una differenza di tonalità[2] per la quale, già grammaticalmente, Nietzsche decreta una provenienza, un agente impersonale che, se guardiamo all’intera plesso delle sue opere, andrà ben oltre il rapporto con la tragedia e con i nodi concettuali relativi alle forme apollinea e dionisiaca. Gesto artistico-musicale che funge da invito ad una riflessione che dalla vita vuole pervenire alla vita stessa in una circolarità cui Nietzsche fornirà dignità teoretica con la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale. Il pensiero è suono. “Pensare” è attraversare territori fonetici a vari livelli espressivi, il ticchettare irregolare sul tavolo del dado lanciato (Mallarmé nella lettura di Deleuze). E pensare proviene da un Fuori[3] che necessita di un oscuramento dell’onnipervasivo e vorace Io che, come Dio e i valori-dogma offusca il ritmo facendone ipocrita monodia liturgica. La tragedia è una condizione ritmica che interpella il singolo nel gesto della sua espressione più pesante, quella del pensiero, quel particolare status che interroga e cerca di affermare dopo che all’orizzonte degli eventi non è più attribuibile, per sopravvenuta verità, alcuna salvezza. La tipologia scritturale nietzscheana vaglia questa condizione ma non si cela dietro una passività alienata, atona, si accresce in creatività, in potentia cognoscendi, si divide e con-divide vita con vita, afferrando l’essere come un’istanza del divenire puro della molteplicità.
Un pensiero musicato segna una differenza. Si colloca negli intermezzi come scelta euristica, esplora i λόγοι contro il λόγος, feconda scrittura e creazione di ritornelli sempre nuovi seppur eternamente dentro il ritorno. Ora, il pensiero-suono, colta la sua determinazione in fieri ritmico, secondo Nietzsche porta a delucidazione il modo che concerne la vitalità sentita al proprio interno, come vita che si manifesta alla vita: «L'”esperienza interiore” accede alla nostra coscienza solo dopo che ha trovato una lingua che sia compresa dall’individuo; ciò significa la traduzione di uno stato in stati a lui più noti»[4]. A sorgere sono due elementi: da un lato la fatica della ricerca che raggiunge un’espressività, afferrata e fisicamente introiettata (“la lingua compresa”), mentre dall’altro il disvelarsi del plurale, lo stato monodico trasformato in quel “più noti” polifonico. Polifonia scritturale e concettuale che alterna tagli a continuità melodiche, contrappunti a sequenze lineari. Termini musicologici che, dentro metafora, ritengo possano essere strumenti comunicativi ed espressivi per narrare la vita e la vitalità che in essa si produce. Pierre Boulez, nella costruzione delle sue opere, teneva ben ferma questa prospettiva mostrandone l’ asse vita-pluralità: «[…] noi dobbiamo inventare il nostro vocabolario ritmico seguendo norme nostre, e, in questo senso, già nelle mie prime opere c’è quello che si potrebbe chiamare un contrasto – lo mantengo sempre del resto, è una delle mie idee principali – tra forme libere (ci sono, qua e là, ritmi molto liberi, praticamente improvvisati e scritti  secondo l’invenzione) e, all’opposto, sezioni molto rigorose»[5]. Cosa fa l’improvvisazione quando intacca il pensiero? Ogni scaturigine di riflessione è frutto di un lancio di dadi e di un ritornello che dalla realtà rimbalzano addosso a colui che penserà quell’evento; l’incontro con un’entità qualsiasi, dai propri simili al paesaggio, agli animali come agli oggetti inanimati, caratterizza il pensiero, almeno all’inizio, come un accadimento improvvisato, una linea musicale non prevista che ci intercetta e a cui, dopo la mera ricezione, spetta a noi donare e dare la qualifica di cosa pensata. Né il cogito né la visione personalista del trascendentale possono concepire una simile relazione produttiva tra esternalità e creatività, tra linea di fuga ed ampliamento di essa. Il pensiero non deve mai scandalizzarsi dinanzi alle improvvisazioni, poiché se esso è vita non può necessariamente sottrarsi. Ammesso lo sconcerto, il farsi carico, il ripartire con un ritmo in ripresa, significa legare la vita alla sonorità della sua forza, dignità senza appigli, potenza d’esistere.
In territorio letterario un contributo espressivo di notevole fecondità affiora dallo stile e dall’opera di Stendhal[6]. Di rilevante centralità risulta essere la postura vitalista dei romanzi e degli studi stendhaliani dove alla meticolosità analitica di matrice illuminista (è il caso dell’anatomia del discorso amoroso in L’amore, 1822) si accompagna l’energica e dirompente potenzialità de Il Rosso e il Nero (1831), romantico manifesto della politicità dello scrittore. Quanto si afferma in ottica “vitale” assume in Stendhal i caratteri dell’autoanalisi, ovvero del tentativo di cogliere l’affresco composito e mobile che incide l’esistere in tutte le sue dispersioni; il “provato” esistenziale coincide con la scritturalità, niente resta fuori anche se è la dimensione del Fuori ad incentivare le infinite sollecitazioni, esaltanti o annichilenti, che si distribuiscono sulla pagina. Non è casuale che Nietzsche amasse particolarmente la prosa stendhaliana dal momento che incarnava una forma di genialità vera, autentica, supportata da due capisaldi: da un lato la produzione di singolarità (da Julien Sorel a Fabrizio del Dongo) che non ammettono trascendenze ed entro il campo dell’immanenza pura vivono il carico della propria passione nel connubio tra vita e creazione, dall’altro il chiaro ed evidente rapporto tra lo stile di Stendhal e la musica classica (lo stesso romanziere ha dedicato uno scritto biografico a Rossini[7]). La variazione continua, l’incessante eccesso in chiave politica ed estetica porta ad emersione la percezione del divenire come di una necessaria presenza nei confronti della quale confrontarsi. Tuttavia, non si tratta soltanto di una produzione di linee costruttive quanto, anche, di rendere intelligibili le peculiarità di psicologie e condotte di vita, per usare la formulazione nietzscheana, reattive. Ipocrisia, senso di colpa, mistificazione della Francia degli anni ’30 dell’Ottocento, universalizzati a motivi filosofici nonché disputabili sul terreno del ritmo, dello stile e della musicalità scritturale. Come “inattuale” ante litteram, Stendhal non si sottrae al realismo e ne fa un dato ricettivo fondativo per evitare equivocità ed ambiguità, ma nello stesso tempo i suoi personaggi cercano di stagliarsi in una propria trasvalutazione valoriale con ricadute collettive, sociali, politiche (da Sorel critico della corruzione, morale e civile della Restaurazione al Lucien[8] idealista). In sintesi, il realismo è la nota razionale di coglimento del mondo e Stendhal non ne fugge (accetta il non senso del “mondo vero”, ritornato “vero” dopo essere stato “favola”), ma all’interno di quest’immanenza crea, si appassiona, vitalizza l’esistenza di una potenza creativa (si fa legislatore, si fa oltreuomo, come Sisifo si dà anche se non c’è salvezza) e Nietzsche ne fa il più fine psicologo francese.
Eroismo senza escatologia che si riflette anche nello stile, frazionato e ampio, segmentato e ridente, impegnato e indifferente che Stendhal giostra a piacimento pervenendo a contrappunti di romanzesco, anticipatore di un Novecento letterario a venire. Approccio alla scrittura che risente grandemente della musica e, in modo particolare, delle opere di Rossini. Perché Rossini? C’è un ponte, una legatura fondamentale tra Nietzsche, Stendhal e Rossini nella misura in cui ognuno di loro accetta la molteplicità, ne declina il caos ed entro questo crea. Un aforisma nietzscheano, un passaggio narrativo stendhaliano, una ouverture rossiniana: tre espressioni come altrettante creazioni e altrettante prese d’atto. Nell’incedere rossiniano, oltre al ben noto “crescendo”, sono racchiusi i “plurali” del vivere, mai segnato soltanto da un’omologia fissa, anzi bruscamente interrotta a volte e, in altri casi, elargita nel gesto ampio della continuità. La regolarità è un momento, è un indice (si ricordi Deleuze) fatto di precarietà e nel medesimo tempo di potenza poiché Rossini non custodisce un registro costante ma freneticamente sbalza da un punto all’altro, si posa malinconicamente e riparte con fragore. Emblematiche le orchestrazioni de L’italiana in Algeri e de Il barbiere di Siviglia, ma non vanno dimenticate le cesellature armoniche, quasi uno stile nello stile, una costituzione a frattale, de La Cenerentola e La gazza ladra. L’invenzione si muove entro la molteplicità ed il fatto narrativo diventa un corredo, come per tanti altri musicisti che sollevano diatribe coi propri librettisti; cascate di note come un caosmo[9] dove fare i conti con il caos e con l’assenza di finalismo che non si esaurisce in sé, ma muta in apertura espressiva, radicale sguardo prensile sul vissuto.
La staticità settecentesca viene messa in discussione da Rossini che impone una nuova euristica musicologica del gesto armonico fin dentro le pieghe della maturità e di certe scelte capaci di aprire fenditure improvvise nella trama dell’opera (l’uso di qualche cavatina ne La donna del lago e in Semiramide). Una piena voce che inchioda il pubblico ad affrontare la situazione musicale e farsene carico come il pastore di Nietzsche che deve mordere la testa del nero serpente per liberarsi dalle menzogne e poi, con un capovolgimento diremmo rossiniano, “ride circonfuso di luce”. Nell’opera rossiniana vi è «[…] grande strepito inconcludente, musica clamorosa, parole che nulla aggiungono all’azione, in quanto tutto è già stato detto […] architettura sonora, di finale strappapplauso, psicologicamente eccitante, vessatorio per il pubblico coi suoi ritmi irrefrenabili, coi suoi crescendo mozzafiato e i clangori insostenibili, fino alla liberazione conclusiva»[10] . Una libertà intessuta sul crinale della vita e del suo potenziale. Dal dinamismo vorticoso all’arresto subitaneo: così è il dramma, così il teatro, così l’esistenza. Rossini ha creato un «[…] grande concertato di stupore»[11] che fa proprio il peso della scena e la sua smarginatura liberata.
Con questo excursus si è cercato di tracciare una mappatura ermeneutica trasversale e di fornire una chiave interpretativa che mostri quanto la filosofia e l’atteggiamento “pensante” di per sé possano stagliarsi nella commistione con materiali e categorie disparate, plurali e come per mezzo di questo nuovo atteggiamento, di certo polemico con l’afasia e la sterilità dello specialismo fatto di vuotezza, possa definirsi un orizzonte interdisciplinare concreto ed attivo. Nietzsche, Stendhal e Rossini accomunati attraverso i movimenti netti e decisi della ricezione del mondo nella sua molteplicità e delle prospettive creative in fieri che in esso si possono produrre; musica, filosofia e vita (come del resto la pittura e le altre forme d’arte) quali cardini del domandare e del costruire risposte che si compromettano lealmente con l’esistenza, quindi facendo propriamente quell’operazione chiamata filosofia.

 

[1] Cfr. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, a cura di P. Chiarini, Laterza, Roma-Bari 2006.

[2] Nel Corso di linguistica generale, Ferdinand De Saussure aveva intuito che dietro la langue (schematizzazione sintattico-semantica fissa) vi è una potenza differenziale, la parole, che è un perenne divenire, un caos che presentifica la molteplicità. Cfr. F. De Saussure, Corso di linguistica generale, tr. it. di T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 2010. Nello specifico, mi permetto di rinviare a: A. Simonetti, Il concetto di genesi epistemologica nella linguistica di De Saussure, in Schegge di filosofia moderna VIII, deComporre, Gaeta 2014, pp. 19-36.

[3] Cfr. M. Foucault, Il pensiero del di fuori, in Scritti letterari, tr. it. di C. Milanese, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 111-134.

[4] F. Nietzsche, La volontà di potenza, a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Bompiani, Milano 2008, p. 270.

[5] P. Boulez, Per volontà e per caso, tr. it. di P. Gallarati, Einaudi, Torino 1977, pp. 6-7.

[6] In sintesi, cfr.: Stendhal, L’amore, tr. it. di M. Bontempelli, Mondadori, Milano 1973; Id., Il Rosso e il Nero, tr. it. di U. Dettore, Rizzoli, Milano 2003; Id., La Certosa di Parma, tr. it. di M. Ortiz, Rizzoli, Milano 2004.

[7] Cfr. Stendhal, Vita di Rossini, tr. it. di B. Revel, Passigli, Firenze 2018.

[8] Cfr. Stendhal, Lucien Leuwen, tr. it. di L. Binni, Garzanti, Milano 2008.

[9] Categoria concettuale di Félix Guattari, sintesi del nesso tra caos e cosmo, tra piano di immanenza pura e libertà creativa al suo interno. Cfr. F. Guattari, Caosmosi, tr. it. di M. Guareschi, Costa & Nolan, Genova 1996.

[10] M. Beghelli, Morfologia dell’opera italiana da Rossini a Puccini, in Enciclopedia della Musica, vol. II, Einaudi, Torino 2006, p. 903.

[11] Ibid.

 

Alberto Simonetti, Phd in Filosofia e Scienze Umane, si è formato presso le Università di Perugia, Firenze e Urbino, dopo i lavori di tesi su Adorno e sul rapporto tra filosofia e politica nell’orizzonte antipsichiatrico, si è occupato di alcune figure del pensiero contemporaneo come Deleuze, Saussure, Foucault. Tra le sue pubblicazioni: Follia e politica. Itinerari di antipsichiatria (Gaeta 2014); L’insavio. Smarginature dell’esistenza tra Kant e Deleuze (Perugia 2016); La filosofia di Proust. Dalla parte di Deleuze (Milano 2018) e Il penultimo del pensiero. Gilles Deleuze storico della filosofia (Milano 2018).

 

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