Privacy Policy “Una foresta è molto più di quello che vediamo”. Climate change, sostenibilità, resilienza ambientale e sociale
Marta Picchio Vol. 10, n. 2 (2018) Ecologia

“Una foresta è molto più di quello che vediamo”. Climate change, sostenibilità, resilienza ambientale e sociale

Portogallo, Vigili del Fuoco impegnati nello spegnimento di un incendio
I Vigili del Fuoco del Portogallo, impegnati nello spegnimento di un rogo forestale

 

Il titolo di questo articolo è ispirato da un pensiero di Suzanne Simard[1], professoressa alla University of British Columbia che da oltre un quarto di secolo studia l’habitat e la biodiversità forestale[2], indagando il sistema complesso che connette le comunità visibili (alberi madre, alberi e plantule del sottobosco) a quelle invisibili (radici e funghi sotterranei). Una trama infinita di hub, nodi e sinapsi strutturata come una rete neurale (o sociale) per disseminare i nutrienti necessari al benessere collettivo delle infinite comunità biologiche, e per scambiare segnali di allarme e informazioni utili per sostenere il processo di resilienza dell’ecosistema forestale agli eventi di disturbo, ed ai fattori di stress pedologico e climatico. Questa struttura mutualistica, sebbene riconosca negli alberi madre[3] il pilastro dell’habitat forestale[4], trae la sua forza nel dialogo reciproco e collaborante della comunità biologica e nella diversità di specie e genotipi, donandoci una straordinaria lezione scientifica e morale sul pensare e sul vivere l’etica del rispetto e della sostenibilità[5].
I 193 paesi membri ONU che nel 2015 hanno firmato l’Agenda 2030[6], hanno assunto un impegno determinato verso l’habitat forestale e l’umanità: “proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre”[7]. Quello verso l’Obiettivo 15 è un itinerario irto e minato dal climate change, arso e offuscato idealmente da una caligine di gas serra e fumi di combusti gravida di rischi per il pianeta e le sue creature (Simard 2010)[8]. Il climate change è la causa del vorticoso aumento degli eventi di disturbo connessi alla desertificazione[9] e alla deforestazione: incendi[10], dissesto idrogeologico, epidemie, invasioni predatorie, aggravati da scelte antropiche insostenibili e dalla colpevole incuria umana (Belcher 2013; Gaur 2018; Kondratyev 2006).
Non esiste più una demarcazione netta ed esclusiva tra le nazioni in via di sviluppo, che sacrificano il proprio patrimonio forestale per creare economie, e i paesi industrializzati che hanno più risorse per tutelarlo (Bennett 2015)[11]. Il climate change è diventato il principale fattore condizionante nella vita delle foreste, perché ha innescato un effetto domino difficile da arginare che degrada e riduce la biodiversità forestale mondiale, creando non pochi disagi e danni per le popolazioni indigene o residenti che vivono nelle aree rurali[12].
Le foreste nella fascia pluviale tropicale sono aggredite dalla desertificazione che provoca siccità e incendi[13]. Un solo anno di siccità può far perdere a una popolazione decenni di faticose conquiste sociali, detonando conflitti e migrazioni (Boas 2015; Mayer 2016; Piguet 2011; Wennersten 2017)[14].
La speranza di compensare con progetti agricoli e di allevamento questa emergenza ambientale e umanitaria ha poi innescato un’altra stagione di deforestazione[15], aggravata dalla pressione demografica globale emergente (Bertoni 2015; Caparrós 2015. Le stime per il 2050 prevedono 9 miliardi di popolazione mondiale). Nelle nazioni industrializzate, da contro, la superficie forestale è raddoppiata negli ultimi 50 anni, ma questo incremento è un’arma a doppio taglio: positiva nella lotta al climate change; dannosa se non coltivata, aggravando i processi di combustione e propagazione degli incendi (Parisien 2018), ed il rischio idrogeologico (Cesti 2011)[16]. Alla base di questa mancata coltura del bosco nei paesi a più alto tasso di sviluppo c’è lo spopolamento delle aree rurali, un fenomeno che produce pesanti effetti di rilevanza sociale, economica ed ambientale, aumentato d’intensita per la capacità attrattiva delle metropoli (VanderGoot, 2018).
L’opinione pubblica non è consapevole della crisi ecologica innescata dalla desertificazione e dalla deforestazione, temi che difficilmente suscitano l’attenzione dei media se non per la cronaca dei roghi colossali (e delle loro vittime). Questa disattenzione interessa anche i costi sociali e ambientali connessi allo sfruttamento delle foreste, e in generale delle risorse ambientali: agri-business, eco-mafie e omicidi di giornalisti e attivisti (informazione ed educazione negata sono il sinonimo della mancata giustizia per l’uomo e l’ambiente)[17]. Eppure le foreste sono i polmoni che puliscono l’aria che respiriamo, svolgendo un ruolo multifunzionale per tutti gli esseri viventi. Gli ecosistemi forestali migliorano la qualità dell’aria e delle acque, preservano da frane e valanghe, rallentano i processi di erosione e desertificazione, forniscono risorse per la vita e beni di rilevanza sociale ed economica, e sono una fonte di energia rinnovabile. Agiscono come serbatoi di carbonio e mitigano gli effetti del climate change, assorbendo una quantità significativa delle emissioni di gas serra causate dalle attività umane. Per queste e molte altre ragioni le foreste vanno mantenute sane, produttive e diversificate, seguendo il circolo virtuoso dettato nell’Agenda 21: sostenibilità economica, ecologica, politica e culturale (D’Amours 2016).
Nello scenario attuale la Cina, che denuncia le più alte emissioni di biossido di carbonio mondiali ed un tasso di desertificazione preoccupante (Huchet 2016), ha assegnato alla forestazione un ruolo fondamentale nella più vasta strategia di riconversione verso una green economy (Guttmann 2018), emergendo come il settore con maggiore tasso di sviluppo per l’economia nazionale (Pang 2018; L. Zhang 2017). La straordinaria capacità di pianificazione e di creazione di enormi economie di scala della Cina (Y. Zhang 2017), in pochi anni ha determinato nel continente asiatico una sensibile inversione di tendenza, rispetto alla desertificazione e deforestazione, non supportata da tante altre nazioni asiatiche (Squires 2018). Negli ultimi cinque anni, la Cina ha piantato 338.000 km² di foreste (l’Italia ha un territorio di 301.338 km²), investendo 83 miliardi di dollari, e altri ne continuerà a piantare, per arrestare la desertificazione con i benefici degli ecosistemi forestali.
Naturalmente l’estensione e gli effetti positivi prodotti dalla riforestazione cinese non sono replicabili nel preve periodo da nessun altro soggetto istituzionale, a causa dei caratteri caratteri socio – economici peculiari di questa nazione – continente. Le risposte sotenibili alla crisi degli ecosistemi forestali sono legate a due fattori: investimenti internazionali, coordinati e di lungo periodo, e coinvolgimento primario delle popolazioni locali in un reale paradigma di sviluppo sostenibile (Weston 2013)[18]. Alla base di questo percorso c’è la gestione attiva delle foreste (Corona 2011), che rappresenta la più efficace azione di resilienza agli effetti ed ai rischi del climate change, permettendo alla foresta di esprimere le sue potenzialità ambientali, paesaggistiche, produttive e sociali (Pretzsch 2017). Sostenere la biodiversità e la gestione multifunzionale, flessibile e durevole delle foreste, è il miglior sostegno al potere di adattamento e auto guarigione di alberi e plantule degli ecosistemi (Lukac 2017).
L’impatto del climate change, la frequenza degli eventi di disturbo, la salute del suolo e la ricchezza della biodiversità[19], come è noto, sono i principali fattori che influenzano la resilienza allo stress degli ecosistemi (Ingaramo 2018)[20]. Tuttavia non è semplice e scontato risolvere l’equazione ecologica di queste quattro variabili, se non adottando dei modelli di intervento di piccola scala, flessibili e quindi capaci di reagire nel breve alle frequenti emergenze innescate dal climate change, studiati sulla base di un’analisi approfondita degli habitat ecologico – sociali (Fiorino 2018). La gestione sostenibile chiede azioni di riforestazione e di ripristino biologico e funzionale degli habitat perduti dopo un disturbo (incendio, frane, alluvioni, epidemie), favorendo l’uso di specie adatte a uno specifico ambiente (Cerdà 2009; Pointer 2018)[21].
Le continue innovazioni nella meccanizzazione tradizionale e robotica, negli scenario ICT, Internet of things e della big data intelligence, stanno già fornendo strumenti e tecnologie impensabili appena un lustro fa, come le sperimentazioni di successo volte alla definizione di modelli per la previsione degli incendi e delle epidemie biologiche (Perera 2018)[22]. Fondamentali sono il riconoscimento economico dei diritti di proprietà dei popoli indigeni e il sostegno al reddito delle comunità sociali marginali (Nakashima 2018; Nath 2016)[23], attraverso incentivi alle produzioni locali non intensive (anche di fonti alternative e sostenibili di fibra)[24], volte a migliorare la nutrizione e la sicurezza alimentare[25]. Questo modello di intervento ha già dimostrato di poter essere efficace e sostenibile (Cairns 2015; Peters 2018; Reed 2017), poiché è stato disseminato per secoli in Europa durante il Medioevo dal monachesimo benedettino[26].
I timori di un nuovo luddismo che interessano decine di milioni di lavoratori, connesso alla rapida affermazione dei sistemi produttivi robotici, potranno trovare una risposta solida anche nei programmi di gestione forestale sostenibile, che potrebbero offrire occasioni di qualificazione e riconversione professionale proprio ai lavoratori con i profili più deboli, maggiormente esposti al rischio della espulsione dagli opifici.
Gli alberi parlano, e noi dobbiamo parlare con loro.

 

BIBLIOGRAFIA

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[1] https://www.ted.com/talks/suzanne_simard_how_trees_talk_to_each_other

[2] Ecosistemi con un’estensione minima di 5000 m2, sono popolate dall’80% delle specie terrestri di animali, piante ed insetti. Secondo il FAOs The State of the Worlds Forests 2018, le foreste forniscono il 20% del reddito e il 30% del combustibile. Sono circa 1,5 miliardi le persone che ricevono il sostentamento dalle foreste, il 90% vive nei paesi in via di sviluppo. http://www.fao.org/state-of-forests/

[3] Esemplari antichi dal tronco più grosso, attorno ai quali si organizzano le reti che connettono centinaia di alberi e plantule. Gli alberi madre inviano carbonio anche a piante di specie diversa, rifornendo principalmente le più deboli e giovani. Ogni albero è connesso al bosco attraverso la rete dei funghi sotterranei che favoriscono lo scambio di carbonio, acqua e nutrienti. La simbiosi tra funghi e radici (micorriza) permette agli alberi di assorbire acqua e nutrienti dal sottosuolo (dove le radici non arrivano), fornendo in cambio carbonio e nitrogeno per la fotosintesi (Pickles 2017).

[4] Il FAO Global Forest Resources Assessment è lo studio più esaustivo sugli ecosistemi forestali del pianeta, monitora 233 paesi e le macro aree geografiche, analizzando e descrivendo caratteristiche, stato attuale e trend di: deforestazione, degrado, aspetti sociali, economici e giuridici. La superficie forestale globale è di 4 miliardi di ettari (31% delle terre emerse). Federazione Russa, Brasile, Canada, Stati Uniti e Cina vantano la metà delle aree forestali planetarie.  http://www.fao.org/forest-resources-assessment/

[5] Tra gli intellettuali che hanno riflettuto su questo tema, preziosa è la lettura dei saggi: Berry 2015; Bertels 2018; Ferrarotti 2012; McLellan 2018; Paci 2015; Q. Li 2018.

[6] https://www.un.org/sustainabledevelopment/biodiversity/

[7] La New York Declaration on Forests approvata nel 2014 dal Climate Summit ONU, intende dimezzare la deforestazione entro il 2020 ed eliminarla entro il 2030. Ripristinando 150 milioni di ettari di terreni boschivi degradati entro il 2020, e di ulteriori 200 milioni di ettari entro il 2030. Nel 2018 Roma ha ospitato la International Conference on Working across Sectors to Halt Deforestation and Increase Forest Area (20-22 febbraio 2018), preliminare al 13° UN Forum on ForestHigh-level Political Forum 2018 (9-18 luglio).

[8] Il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) è l’organismo internazionale incaricato di valutare l’impatto globale di questo fenomeno. L’IPCC è stato istituito nel 1988 dall’Organizzazione meteorologica mondiale (OMM) e dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP). Le valutazioni dell’IPCC forniscono una base scientifica ai governi per sviluppare le politiche di mitigazione, con particolare riferimento ai negoziati della Conferenza sul clima delle Nazioni Unite, e della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC). http://www.ipcc.ch/

[9] Circa 2 miliardi di persone vivono nelle aree aride e semi-aride (dryland) interessate dalla desertificazione, e il 90% di queste vive nei in via di sviluppo. Dal 1994 opera la United Nations Convention to Combat Desertification (UNCCD), che persegue la Land Degradation Neutrality (LDN): https://www.unccd.int/

[10] Il rischio di incendio è il risultato di diversi fattori che determinano il verificarsi di incendi. Le condizioni meteorologiche sono il prerequisito più importante: aridità, alte temperature, bassa umidità, forte vento, ondate di calore. Fenomeni legati ai cambiamenti climatici che stanno portando ad una riduzione delle precipitazioni in primavera, accompagnata da ondate di calore più intense, sostenendo la propagazione di incendi in maniera più rapida ed estesa. Mappa l’evoluzione degli incendi in Europa: European Forest Fire Information System (Effis): http://effis.jrc.ec.europa.eu/static/effis_current_situation/public/index.html

[11] Un altro utile indice è il Global Forest Watch. https://www.globalforestwatch.org/

[12] Indigeni, aborigeni, nativi, sono definiti i popoli presenti in un luogo dalla preistoria. Circa il 59% per cento della terra acquisita nel mondo per fini agricoli (inclusi pascoli e zone boschive) è sottratta ai nativi. https://landmatrix.org/

[13] Ogni anno gli incendi devastano circa 3,5 milioni Km2 di terra. Da alcuni anni la ricerca documenta le pesanti emissioni di gas serra nell’atmosfera prodotte dagli incendi, in passato sottostimate anche per l’uso di strumenti meno precisi. Lo stesso vale per il grave impatto dei roghi sulla qualità dell’aria, la principale emergenza per la salute pubblica: Environmental Performance Indexhttps://epi.envirocenter.yale.edu/

[14] FAO e UNHCR hanno pubblicato Managing forests in displacement settings, manuale che fornisce indicazioni per sostenere il recupero e la rigenerazione delle foreste, riabilitare i terreni degradati e sostenere il fabbisogno energetico degli indigeni, con particolare attenzione alla gestione forestale in caso di afflusso improvviso di popolazioni di sfollati. http://www.fao.org/publications/sofa/the-state-of-food-and-agriculture/

[15] Attualmente l’80% delle terre sono deforestate per coltivazioni intensive (soia, olio di palma, canna da zucchero e carne), stimolate dalla grande domanda di industria e grande distribuzione occidentale e cinese. L’impatto chimico dell’agricoltura e la gestione non sostenibile degli allevamenti impoveriscono i terreni, privandoli di vegetazione e nutrienti, aggravando desertificazione e dissesto idrogeologico.

[16] La combustione deposita uno strato di cenere finissima che rende impermeabile la superficie del suolo, rallentando l’assorbimento di acqua durante le piogge, che è sempre più violenta (un altro effetto del cambiamento climatico). L’erosione del suolo causata dal dilavamento, favorita dalla combustione delle radici che impedisce l’azione di ancoraggio del sistema pianta-suolo-roccia, è causa di frane e inondazioni che interessano strade e città.

[17] Il Global Witness report e il Front Line Defenders documentano ogni anno una media di 200 omicidi di giornalisti e ambientalisti, che lottano contro governi e imprese che rubano terre e danneggiano gli ecosistemi. In entrambe le fonti emerge come i più colpiti sono i difensori dei diritti dei popoli indigeni. La corruzione e la sproporzione dei poteri, rendono spesso difficile fare giustizia di questi omicidi. Nel 2017 il continente più pericoloso ancora una volta è stato l’America Latina. Il Paese più pericoloso le Filippine. https://www.globalwitness.org/https://www.frontlinedefenders.org/

[18] In questo momento l’Africa, continente in vorticoso sviluppo, minato da numerose contraddizioni sociali, politiche ed ecologiche, offre alcuni tra gli esempi più interessanti di progetti di sviluppo sostenibile: Hanson FAO, IIED, IUCN e Agricord hanno lanciato il programma Forest and Farm Facility nel 2013 per sostenere la resilienza ai cambiamenti climatici dei piccoli produttori agricoli e forestali e le loro organizzazioni. Le misure prevedono il sostegno ad imprese e lavoratori, ed alle comunità con interventi per contrastare la povertà e il disagio sociale di giovani e donne nelle aree rurali (25 paesi sono coinvolti in Asia, America Latina e Africa). http://www.fao.org/partnerships/forest-farm-facility/

[19] Più ricco è un ecosistema, maggiore è la sua resilienza, perché se ci sono più specie e una di queste subisce danni gravi, la probabilità di una auto guarigione degli habitat con le specie superstiti aumenta.

[20] (Seddon 2016) Il Vegetation sensitivity index ha dimostrato il diverso grado di resilienza degli ecosistemi nelle zone geografiche del pianeta, la cui conoscenza è utile per pianificare le azioni di sostegno della biodiversità.

[21] Vastola 2015  (Bukowski 2018; Brioschi 2017; Leahy 2018; Weiss 2007) Le grandi piantagioni di alberi “alieni” per produrre materie prime industriali, scelti per la loro velocità di crescita, compromettono la biodiversità. Inoltre, favoriscono lo sfruttamento del lavoro e la negazione dei diritti, poiché le monoculture creano un “vuoto economico” che impedisce il consolidamento di alternative sostenibili alla diversificazione dei redditi.

[22] Esistono diversi progetti sperimentali internazionali che utilizzano immagini satellitari, dati meteorologici, modelli empirici, per ottenere previsioni sui possibili periodi di rischio di incendio e stime del grado di pericolo su scala globale, nazionale o regionale. I modelli valutano la caratterizzazione e la mappatura dei combustibili vegetali, l’analisi dei fattori scatenanti l’incendio, la simulazione della propagazione del fuoco, la perimetrazione delle aree bruciate, con la stima del danno sulla vegetazione e sul terreno. Questi modelli previsionali, oltre a creare avvisi di emergenza, consentono una migliore simulazione dei protocolli operativi.

[23] I rapporti del gruppo di lavoro Iwgia e di Survival International, documentano come tanta povertà derivi dal mancato riconoscimento formale delle terre indigene. Iwgia lotta perché sia riconosciuto il ruolo degli indigeni nella lotta al climate change, attraverso la sostenibilità dei saperi tradizionale dei popoli. L’80% dei 200 luoghi a più alta biodiversità mondiale sono terra indigena. https://www.iwgia.org/https://www.survivalinternational.org/

[24] Gli incentivi della FAO per aiutare le organizzazioni mutualistiche e la rappresentanza di piccoli produttori agricoli, hanno favorito la difesa dei loro diritti nei confronti dei governi e dei mercati, a cominciare dai prezzi di vendita più equi per i loro prodotti.

[25] Il rapporto sullo stato dell’alimentazione e dell’agricoltura è la principale pubblicazione annuale della FAO. http://www.fao.org/publications/sofa/the-state-of-food-and-agriculture/

[26] Documenta questa tradizione che ha realizzato grandi bonifiche agricole, introducendo tecniche di gestione ancora attuali, il “Codice forestale camaldolese”, il complesso delle norme varate dai monaci Camaldolesi dal 1027 al 1866. https://www.collegiumscriptorium.it/le-pubblicazioni/codice-forestale-camaldolese/

 

Marta Picchio, PhD, è ricercatrice di Sociologia generale presso il Dipartimento di Filosofia, Scienze sociali, umane e della formazione dell’Università degli Studi di Perugia. Tra i suoi interessi di ricerca, i classici della Sociologia, la Sociologia dello straniero, della cittadinanza e dei diritti umani (marta.picchio@unipg.it)

 

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