Privacy Policy A cavallo tra l’Europa e i Tristi Tropici
Elisa Gabriela Palermo Maria Alma Tozzini Vol. 4, n. 1 (2012) Conoscenza

A cavallo tra l’Europa e i Tristi Tropici

«Quando commettiamo l’errore di ritenere il selvaggio governato esclusivamente dai suoi bisogni organici ed economici, non avvertiamo che egli ci rivolge il medesimo rimprovero, e che, secondo lui, il suo desiderio di sapere appare molto più equilibrato del nostro»

Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio

 

Claude Lévi-Strauss
1 Claude Lévi-Strauss

 

L’esistenza di una mentalità diversa da quella occidentale o moderna, contrassegno dei (mal) chiamati popoli primitivi o non civilizzati, è stata a lungo ritenuta un fatto innegabile. Ciononostante, e malgrado molti etnologi – tra i quali uno degli esponenti della corrente “evoluzionista”, come Sir E. B. Tylor – avessero studiato le “civiltà primitive”, è stato Lucien Lévy-Bruhl ad avanzare l’ipotesi di una differenza di natura nel modo di pensiero, nell’intelletto e addirittura nella logica propria dei diversi gruppi umani. È stato questo antropologo “da poltrona” (così venivano di solito chiamati gli accademici della scuola evoluzionista che non svolgevano ricerca sul campo e lavoravano invece su raccolte e narrazioni riportate da terzi, spesso non accademici), di formazione filosofica, il primo a parlare, intorno al 1910, dell’esistenza di una mentalità primitiva nelle società “inferiori”, com’era solito chiamarle.
Secondo Lévy Bruhl, una delle principali differenze tra la mentalità “primitiva” e quella “civilizzata” risiede nel carattere mistico delle rappresentazioni collettive dei primitivi. Con il termine “mistico” l’antropologo non intendeva fare riferimento al misticismo religioso, come di solito avviene nelle società occidentali, bensì alla credenza in forze e azioni non percepibili dai sensi ma, ciononostante, reali.
Il Lévy-Bruhl dei primi scritti[1] avanzava la tesi secondo cui i “popoli primitivi” non penserebbero razionalmente, come invece i popoli appartenenti alle società “moderne” o “civilizzate”. Da questo punto di vista, quella che lui chiamava mentalità primitiva veniva caratterizzata come una mentalità prelogica, intendendo con ciò un modo di pensare che non si sforza di evitare la contraddizione e che obbedisce piuttosto al principio della legge di partecipazione, nella quale spicca la categoria affettiva del sovrannaturale. La partecipazione è il principio mediante il quale vengono collegate le rappresentazioni collettive di ordine mistico; ovvero, in virtù di questo principio, gli esseri e gli oggetti possono al contempo essere sé stessi e un’altra cosa. In questo modo, sosteneva l’autore, le società arcaiche collegano espressamente livelli di realtà che risulterebbero irriducibili agli occhi dell’esperienza razionale, e riportano questi collegamenti nei miti e riti, nei quali primeggia una logica dell’affetto, ovvero una percezione emotiva del reale e dei poteri invisibili, che dinanzi allo sguardo dei primitivi sono tanto reali quanto i dati l’esperienza quotidiana. Stando così le cose, i primitivi coglierebbero il mondo, dagli esseri che lo abitano ai fenomeni ordinari e straordinari che in esso hanno luogo, tramite l’intuizione, l’emotività e il sentimento, senza far ricorso alle operazioni logiche, ma soltanto a quelle mistiche e prelogiche.
Alcuni anni più tardi, l’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, anch’egli di formazione filosofica ed attratto dallo studio delle mentalità, avrebbe dedicato gran parte della sua produzione teorica a dimostrare l’inesistenza di “stadi evolutivi” nel modo di pensare degli uomini, giacché, secondo l’autore, l’umanità condividerebbe gli stessi meccanismi razionali di pensiero.
In questo breve scritto ci piacerebbe seguire le tracce di questa problematica posta da Lévi-Strauss, a partire da Il pensiero selvaggio, testo pubblicato per la prima volta nel 1962. La scelta di concentrare il nostro saggio su questo aspetto della produzione dell’antropologo francese è dovuta non soltanto al fatto che a distanza di cinquant’anni queste riflessioni continuano ancora a smantellare buona parte del senso comune imperante, ma anche, e forse fondamentalmente, per il fatto che oggi, come dieci anni fa, quando eravamo ancora degli studenti di antropologia, la lettura di queste pagine continua a procurarci il medesimo piacere. Se il nostro scritto riuscisse a svegliare in qualcuno il desiderio di intraprendere l’avventura di leggerle, ci riterremmo più che soddisfatti.
Torniamo al punto nevralgico dell’opera prima citata. Qui Lévi-Strauss mira a dimostrare – per rispondere a Lévy-Bruhl – che non ci sono differenze tra le capacità intellettuali dei “primitivi” e quelle dei “civilizzati”, e che i diversi saperi elaborati dai primi e dai secondi sono sviluppati sistematicamente allo stesso modo. L’autore tenta di smontare i postulati allora in voga, secondo cui i cosiddetti popoli selvaggi arriverebbero alla conoscenza mossi soltanto dall’urgenza delle esigenze quotidiane. A questo scopo Lévi-Strauss ingaggiò un’aspra discussione con i funzionalisti, i quali affermavano che questo tipo di popolazioni conosce soltanto quelle specie animali o vegetali utili a soddisfare le necessità quotidiane di sopravvivenza; per questi popoli, dunque, la conoscenza sarebbe soltanto il risultato dell’esigenza di risolvere problemi pratici, concreti, circoscritti. Di fronte a questa impostazione Lévi-Strauss è categorico: le popolazioni umane, scrive l’antropologo, dichiarano utile qualcosa nella misura in cui, prima, lo conoscono, e non viceversa; e tutte le popolazioni accumulano conoscenza per soddisfare esigenze intellettuali, prima ancora che pratiche.
Orbene, quali sono queste esigenze intellettuali? sono culturalmente determinate? Secondo Lévi-Strauss, il pensiero in quanto tale si fonda sull’esigenza di ordine, sulla necessità di classificare, in qualche modo e a partire da un determinato parametro, la realtà. La sfida dell’antropologo, dunque, risiede nello sforzo di comprendere se i gruppi e i rapporti cui ogni società mette capo – rapporti per lo più particolari – rispondano o meno ad una logica universale che si manifesta culturalmente. In questo senso, è importante chiarire che l’intera produzione levistraussiana è attraversata da una preoccupazione che risulta fondativa dell’antropologia, ovvero la tensione universale-particolare.
Secondo Lévi-Strauss, le forme di conoscenza che caratterizzano le società selvagge sono la magia ed il pensiero mitico, mentre la forma predominante nelle società occidentale sarebbe la scienza. Di contro alle tesi allora imperanti, secondo cui pensiero mitico e magia rappresenterebbero una tappa evolutiva precedente quella scientifica, all’autore preme dimostrare, da un lato, che si tratta di sistemi di conoscenza autonomi e paralleli, sì che non sussisterebbe alcuna continuità lineare o evolutiva tra di essi. Dall’altro, egli sottolinea i grandi passi avanti operati da quei tipi di sapere nel tentativo di fornire un ordine al mondo. Da questo punto di vista, l’obiettivo della magia e del sapere mitico è lo stesso che più tardi avrebbe orientato il lavoro della scienza: disporre gli eventi in strutture che consentano di ordinarli, di fornire loro una coerenza; che contribuiscano, dunque, ad un ordine classificatore. Lévi-Strauss afferma che la “scienza del concreto” – come decise di chiamarla – non solo ha prodotto conoscenze reali diecimila anni prima della scienza, ma costituisce tuttora il sostrato del mondo moderno. Per questo motivo preferisce chiamarla scienza “prima”, piuttosto che “primitiva”, poiché – sostiene – c’è bisogno di una mente straordinariamente scientifica per giungere alle scoperte realizzate nel neolitico.

Il pensiero selvaggio di C. Lévi-Strauss
2 Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio (1962)

 

Ci sarebbe dunque un parallelismo tra i due sistemi, determinato, in primo luogo, dal fatto che anche la magia si costituisce come sistema di conoscenza ben articolato, ed in secondo luogo, dalla constatazione che entrambe le forme di sapere producono risultati teorici e pratici, nonché validi. Le loro differenze riguarderebbero semmai il tipo di fenomeni ai quali vengono applicati; ma ciò non sancisce alcuna differenza qualitativa nelle operazioni mentali coinvolte nell’esercizio del conoscere. Secondo l’autore, in entrambi i casi si tratta di conoscenze scientifiche, che divergono per quanto riguarda il modo con cui si rapportano alla natura, giacché sono in gioco due diversi livelli di approccio al mondo naturale: mentre la “scienza del concreto” si costituisce, come il suo stesso nome suggerisce, a partire da una stretta vicinanza con la percezione, la scienza tenderebbe ad allontanarsi da questa. Ciononostante, persino una classificazione basata sulle proprietà sensibili è meglio del caos e costituisce una tappa verso un tipo di ordine razionale. In questo senso, Lévi-Strauss mette capo a un’operazione di recupero della ricchezza del mito e del rito: questi serbano modi arcaici di guardare, di percepire e di classificare, che testimoniano tuttavia come veniva pensato l’ordine del mondo.
L’antropologo francese cerca di spiegare la modalità operativa di quella “scienza prima”, ricorrendo ad un’analogia con il bricolage, intesa come tecnica che consente la creazione di opere d’arte a partire da elementi già utilizzati, a partire da resti o scarti di altri materiali. Il pensiero mitico opera, sul piano intellettuale, allo stesso modo del bricoleur sul piano tecnico: rimonta resti, scarti e rifiuti, ottenendo risultati brillanti, benché disponga di un numero finito di possibilità, sancito dalla quantità di combinazioni possibili determinate dagli elementi a disposizione.
Più che al contenuto di questi montaggi, Lévi-Strauss è interessato alle strutture cui queste combinazioni danno luogo a partire da un numero finito di elementi. A differenza dello scienziato, il pensiero mitico non dispone di materie prime accordi al progetto, e dunque deve accontentarsi di ciò che ha di fronte a sé. Il pensiero mitico può certamente avere un carattere generalizzante, come quello dello scienziato, ma può farlo soltanto ricorrendo a materiali non creati appositamente per questo. Il pensiero scientifico, invece, genera nuovi accadimenti a partire da strutture previe di conoscenza; mediante queste organizza gli eventi, generati con tale finalità o prodotti dallo stesso progetto scientifico.
La grande influenza esercitata dal progetto linguistico di Ferdinand de Saussure su Lévi-Strauss è evidente nel fatto che quest’ultimo mette in primo piano i rapporti tra elementi e non le proprietà intrinseche dei medesimi. Come i linguisti, egli sostiene che il significato non risponde a caratteri intrinseci degli elementi, bensì alla loro posizione strutturale. Elemento, questo, strettamente connesso al progetto strutturalista levistraussiano di creazione di modelli astratti, atti a capire i fondamenti delle società umane e a svelare quello che, ai suoi occhi, costituiva l’elemento di interesse primario: la “grammatica universale dell’intelletto” umano.
In questo modo possiamo cogliere il significato che per lui acquisivano le peculiarità incontrate in ogni cultura, nella misura in cui gli consentivano di delineare un modello generale universale da applicare a tutta l’umanità. E da questo punto di vista, ci sembra importante sottolineare che, benché da giovane avesse svolto ricerca sul campo in Brasile, Lévi-Strauss preferì piuttosto concentrarsi sulla lettura e l’analisi minuziosa di etnografie scritte da terzi – modalità denominata lavoro etnologico, vale a dire, di analisi comparativa; questo modo di operare gli avrebbe consentito di costruire modelli formali applicabili all’intera umanità e a questo dedicò gran parte del suo lavoro.
A differenza degli struttural-funzionalisti che postulavano la possibilità di identificare le strutture che sostenevano le istituzioni sociali, Lévi-Strauss afferma che queste ultime rimangono soggiacenti e che dunque dall’osservazione diretta si ottengono mere apparenze, che si manifestano diversamente in ciascuna cultura. Per questo motivo egli dedica quasi tutta la sua opera all’attività comparativa, che gli consentirà di creare dei modelli formali universali. Tali modelli potranno essere enunciati soltanto dopo aver colto le strutture soggiacenti alle istituzioni umane, che consentirebbero di comprendere queste ultime, malgrado la diversità culturale che le presenta come dissimili.
C’è un elemento che riteniamo importante sottolineare in relazione al contributo offerto dall’opera di Lévi-Strauss: a differenza dei funzionalisti, che miravano alla comprensione dettagliata di ogni cultura, a lui interessa porre questioni comuni a tutti gli uomini. Non dobbiamo dimenticare che queste domande relative all’umanità, come per esempio, cos’è l’uomo? perché esistono culture diverse? costituivano il filo conduttore del piano evoluzionista, che – è onesto ammetterlo – è il paradigma sotto il quale sorge e si costituisce l’antropologia come disciplina scientifica. Ma se Lévi-Strauss può permettersi di recuperare alcune delle domande fondamentali dell’evoluzionismo, ciò si deve in gran parte al fatto che riesce a smontare la base ideologica di quest’ultimo, relativamente alla questione degli stadi evolutivi dell’umanità. In qualche modo, toltosi quel sassolino dalla scarpa – come crediamo di aver messo in evidenza a partire dalla proposta di Il pensiero selvaggio – Lévi-Strauss trova il modo di recuperare dei postulati validi dell’evoluzionismo lasciati da parte dalle correnti teoriche successive, rifiutandone tuttavia il progetto teorico ed elaborando nuovi postulati contrapposti ad esso.
La consapevolezza che il mondo viene conosciuto, classificato, contrastato in un sistema di opposizioni (come il crudo e il cotto), che i sistemi sociali e familiari dei popoli selvaggi sono molto più complessi di quanto si ritenesse fino a quel momento, e che sia il mito sia la scienza sono strutturati sulla base di coppie di opposti che si rapportano tra di loro in modo logico, consente a Lévi-Strauss di rivelare l’unicità delle strutture logiche comuni a tutti i gruppi umani, un medesimo schema mentale, che è, a sua volta, riflesso della struttura del linguaggio.
L’aver compreso che la coerenza logica e il ricorso ad un criterio in grado di ordinare il mondo costituiscono una costante del pensiero – detto altrimenti, l’aver trovato una “struttura” soggiacente a tutto il pensiero umano – ha consentito la scoperta di quei principi – come il pensiero binario – sulla base dei quali prende forma l’intero contesto culturale; al contempo, mediante la formulazione di modelli formali, è stato possibile elaborare una teoria più generale della natura dei rapporti sociali.
Benché l’opera e le posizioni di Lévi-Strauss siano stati largamente discussi, quanto detto continua a costituire, a nostro modo di vedere, il suo lascito teorico fondamentale.

 

Bibliografia consultata
Lévi-Strauss, Claude, Il pensiero selvaggio (trad. it. di P. Caruso), Il Saggiatore, Milano 2010.

Lévi-Strauss, Claude, Tristi tropici (trad. it. di B. Garufi), Il Saggiatore, Milano 2008.

Lévi-Bruhl, Lucien, La mentalità primitiva, Einaudi, Torino 1981.

Lévi-Bruhl, Lucien, L’anima primitiva, Bollati Boringhieri, Torino 1990.

 

[1] Ci riferiamo soprattutto alle sue prime tre opere: Les functions mentales dans les sociétés inférieures (1910), La mentalité primitive (1922) e L’áme primitive (1927). La notazione è importante, poiché nelle opere posteriori l’autore tende sempre di più a tornare sui suoi presupposti di partenza ed a rivederli fino al punto di un abbandono delle formulazioni iniziali, che è del tutto evidente ne Les carnets de Lucién Lévy-Bruhl, uscito postumo nel 1949. Qui l’autore afferma che non esiste una mentalità primitiva che possa venir distinta dalla mentalità moderna, in quanto prelogica e mistica, bensì ci sarebbe una mentalità mistica, più accentuata e facilmente osservabile presso i primitivi, ma comunque attiva in, e dunque comune ad, ogni spirito umano.

 

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