Privacy Policy Maddoli modernista
Bianca Pedace Vol. 10, n. 2 (2018) Arte

Maddoli modernista

Piccolo lessico per Giorgio Maddoli

Attivo sulla scena umbra e nazionale, Giorgio Maddoli, dopo la prematura scomparsa del 1978, è stato studiato e celebrato in varie sedi. Negli ultimi anni, in particolare, si sono accesi i riflettori di una complessiva valutazione storiografica con esposizioni quali “L’intima discrezione della pittura”. Giorgio Maddoli (1916-1978)[1], a cura di Francesco Federico Mancini, in occasione di una importante donazione delle figlie Cristina e Chiara al Museo di Palazzo Baldeschi al Corso. Pochi mesi fa, in aprile, il Consiglio Regionale della Toscana ne ha ricordato la figura a Firenze, con una mostra a Palazzo Bastogi[2].
Si intende qui tentare la focalizzazione di alcuni nodi critici del suo percorso, scanditi secondo i lemmi principali di un suo plausibile “dizionario”, e parimenti tentarne una possibile collocazione contestuale rispetto a protagonisti e comprimari del coevo dibattito umbro e rispetto ad alcuni elementi del coevo dibattito occidentale.

MODERNISMO

Recentemente, all’estero, un collega mi chiedeva come si traduce in italiano Modernismo (riferendosi a quello catalano). Ciò che lì viene chiamato così corrisponde più o meno a quella stagione che in Italia si suole denominare Liberty, mentre la parola modernismo è entrata in voga, con calco quasi letterale dall’inglese e in particolare dalla letteratura specialistica americana, per indicare le avanguardie e la loro tradizione novecentesca fino al definitivo superamento (tra antimodernismo e postmodernismo appunto, come nel titolo di un celebre volume[3]). Sarebbe certamente il caso di dedicare uno studio specifico alla terminologia, divenuta per certi versi confusa, dal momento in cui anche nel nostro dibattito si è diffusa, forse senza una adeguata e condivisa riflessione teorica, questa parola. Si dà il caso che sia stata assorbita, credo legittimamente e anche giustamente, ma in modo talvolta meccanico, traendola di peso da un’altra situazione culturale.
Non sarà forse allora del tutto un caso l’equivoco (non un gioco di parole) che il titolo potrebbe generare.
Prima delle ultime vicende e della sussunzione nel dibattito del termine modernismo, come è oggi comunemente inteso nel mondo dell’arte al di qua e al di là dell’oceano, il vocabolo in italiano designava soprattutto un movimento religioso e culturale tra Otto e Novecento, e a quello ci si riferisce in questa sede.
La storia delle parole è curiosa e talvolta ironica.
Maddoli, che non volle essere modernista (nel senso corrente) in arte, fu invece vicino a uno degli esponenti modernisti di inizio secolo e qui si postula che quell’esperienza sia stata per lui dirimente.
Maddoli modernista, appunto.
Sul finire dei Trenta Perugia è una città attraversata da molteplici contraddizioni, in cui la modernizzazione convive con la repressione del regime. In quel quadro sotterraneamente fervido, mentre la dittatura stringe le maglie e proclama le leggi razziali, continuano a fruttificare esperienze di segno diverso; altre nascono, sorgive, o vi si innestano, creando a sua volta nuove radici per venture genealogie.
Giorgio Maddoli è intorno ai vent’anni: è nato nel 1916. La sua fede cattolica, che già ne incardina l’esistenza,  ha incontrato un maestro: mons. Luigi Piastrelli. E’ un incontro decisivo, credo anche per la sua arte, certamente per la sua cultura e la sua religiosità.
Era del resto figura di grande spessore: proveniente dall’esperienza del Modernismo cattolico, cui aveva aderito giovanissimo, aveva altrettanto presto conosciuto le durezze dell’emarginazione che il pontefice dell’epoca aveva riservato a quell’avventura intellettuale e di fede. Solo molti anni dopo, le riflessioni di Piastrelli e dei suoi sodali, fra cui lo stesso Fracassini, sarebbero state, per così dire riabilitate, fino all’importante momento vissuto nell’ambito conciliare e in particolare poi sotto il pontificato di Paolo VI.
Era stata comunque una stagione di incommensurabile portata per la religiosità italiana e soprattutto umbra, come ha ben lumeggiato, molti anni fa, Francesco Di Pilla nella attenta rievocazione di quelle vicende[4]. Piastrelli, poco dopo, sarebbe diventato parroco presso la Chiesa di Sant’Agata, all’apice della omonima via, ove sbocca in Via dei Priori e da lì sarebbe tornato protagonista della vita culturale umbra, tra l’altro promuovendo la sezione perugina della FUCI, Federazione Universitaria Cattolica Italiana. In quest’ultima era stato peraltro attivo già dai Venti, come segretario ecclesiale, e aveva poi continuato la sua vicinanza, in particolare con Giovan Battista Montini, appunto il futuro Paolo VI, ora da poco canonizzato.
Maddoli aderì alla FUCI, partecipando anche ai lavori romani, e fu poi importante esponente della sezione perugina, nella quale coinvolse l’amico e coetaneo pittore Enzo Rossi. Fu, per entrambi, una scelta dirimente – parallela ai primi passi autonomi sulla scena dell’arte: i due giovani amici sono presenti a Terni nella VIII Sindacale del 1938[5]. Saldare la fede e la cultura, nel loro specifico la fede e l’arte, fu forse l’avvenimento decisivo di una intera esistenza. Quanto di culturalista poteva rimanere in una tradizione artistica appresa nelle fonti canoniche, tra la formazione all’Istituto d’Arte e quella all’Accademia di Belle Arti, veniva riassorbito in una prospettiva compiutamente e complessivamente sacra. Quanto di contingente e individuale poteva rimanere in una fede vissuta come dimensione solo personale, nelle ristrettezze di una opinabilità privata, veniva innervato in una prospettiva pubblica e generale, sociale; quanto di soprannaturalista per così dire, o addirittura di floklorico, poteva rimanere in  certi aspetti della religione o del culto veniva verificato al vaglio di una severa critica, anche scientifica e culturale.
La tormentata inchiesta di Rossi, che cerca il nesso tra la sua fede cattolica e i problemi dell’arte moderna “e la vita nella sua totalità” e lo trova nel senso dello spazio e nella verità degli oggetti nel linguaggio pittorico[6], si ritrova anche in Maddoli, in cui diventa esemplare nei paesaggi e in generale in una pittura che è complessivamente sacra. Il dipingere diviene atto di preghiera. Tuttavia mi pare che, tra le corde della religiosità umbra, non sia la corda del misticismo quella della sua pittura. L’indagine razionale, una verifica critica (in certo qual modo paradossalmente laica), un rigore intellettuale che trova negli strumenti disegnativi i suoi mezzi più adeguati – tutti caratteri distintivi della sua arte – sono piuttosto vicini alla filosofia (o alla filologia) che al misticismo. Si veda, per opportuno confronto, quanto recentemente è stato scritto da Flavio Cuniberto[7] sul paesaggio percorso da San Francesco (e sulla sua natura edenica); paesaggio diverso, mi pare, da quello maddoliano.
In questo senso un contraltare che è quasi un doppio potrebbe essere la religiosità capitiniana.
La fede profonda e intensa di Maddoli, seppure possa talvolta virare al misticismo, è sostanzialmente rigorosa e critica, intrisa di elementi speculativi e razionali. Infatti, sebbene sotteso, un elemento mentale e speculativo è sempre presente nelle sue opere, e le allontana in modo equanime sia dalle istanze scopertamente ideologiche, che sembrano informare alcuni quadri di paese nei Trenta – come suggerisce Michele Dantini[8] in una recente occasione dedicata a Francalancia – inquadrabili in un ruralismo che  fu invece al nostro probabilmente estraneo, sia  da istanze magiche e al limite appunto mistiche.
Vicino, invece, pur nella diversità di scelte linguistiche e storiche, come si dirà, all’operazione di Enzo Rossi e per certi versi speculare e interconnesso a quella di Romeo Mancini.
Almeno per metafora, si potrà parlare di un Maddoli modernista, nel senso appunto di una filiazione profonda e costitutiva da quella vicenda, per il tramite diretto di Luigi Piastrelli e per il tramite indiretto del mondo della FUCI.

TRADIZIONE

Fu di quel tipo, verrebbe da dire, tutto il suo rapporto con la tradizione.
Tale parola fu certo importante per lui. E’ stato notato da quasi tutti gli esegeti, e a giusta ragione, che si mosse nel solco della tradizione: una tradizione aggiornata, coltamente rivissuta e consapevolmente proseguita. Va d’altra parte rimarcato che, in tempi di richiamo alla tradizione nei suoi modi anche più roboanti, essa fu, nel suo vocabolario, parola geneticamente scevra di retoriche e opportunismi  – aliena, ad esempio, in ogni sua fase, da qualsivoglia spirito nazionalistico. Non la tradizione dei capi, insomma, né quella della nazione. E’ dunque un rapporto con la tradizione  quale genealogia alta, ma non sempre con quella più indiscussa e sicura. La tradizione non fu mai infatti per Maddoli una comfort zone. Convintamente nell’ordine dei padri, tuttavia, decise, con mossa deliberata e senza vis polemica, di non abbandonarla.
Di non abbandonarla, caparbiamente e forse ironicamente, in un rovesciamento, sotteso, di posizioni più diffuse, o più radicate nel momento, per un verso; per altro verso, nella persuasione inamovibile di una possibile innovazione linguistica dal di dentro – come rivedere con gli strumenti della critica filologica i sacri testi, se mi si passa il parallelo modernista.

AVANGUARDIE (MODERNISMO/2)

Se sul piano locale il suo rifiuto delle avanguardie è un elemento da appaiare alla figura di artista integrato nel tessuto sociale, con un ruolo chiaro e riconosciuto (ma è interessante notare che vi affiancò sempre quello dell’intellettuale attivo anche nell’organizzazione e agitazione culturale e nel mondo della scuola) – integrazione della quale non si capacitava il giovane Umberto Raponi, come rievocato in un commosso ricordo[9] –  sul piano generale quel rifiuto era invece anche rifiuto di un nuovo tipo d’artista.
In tale direzione va inquadrato un elemento rievocato, all’indomani della prematura scomparsa del pittore, da un suo sensibile critico, Marcello Camillucci[10], che parla di un Maddoli lontano dal tormento esistenziale. Oltre le questioni caratteriali, si trattava in realtà di porsi consapevolmente in una tradizione e genealogia accademica diversa, e in parte opposta, a uno statuto d’artista che, erede già di elementi del Romanticismo – non fu romantico – , propugnava una figura di poeta maledetto, di genio tormentato. Tale figura era stata ripresa, talvolta malgré soi, dagli artisti avanguardisti, che avevano fondato nel Novecento una nuova tradizione, divenuta in qualche misura canonica. Maddoli agisce sin dagli esordi in un clima diverso, e in un tempo successivo, permeato dal cosiddetto ritorno all’ordine. Tuttavia la sua scelta di campo resterà coerente, anche allorquando, nei Quaranta, l’opzione si dovrà rinnovare, di fronte al diffondersi di un verbo postavanguardista: si veda l’atteggiamento di fronte al postcubismo, che arriva per molte vie in città, a cavallo e soprattutto all’indomani degli anni di guerra. Ovvero di fronte all’aggiornamento sulle avanguardie, postulato in Italia dalla Biennale di Venezia del 1948, anno nodale anche per Maddoli, infatti. E in generale all’elaborazione postcubista italiana, peraltro diffusa in un primo momento anche in chiave ideologica di sinistra – poi le cose, appunto dal 1948, cambieranno. Non si deve certo pensare ad una totale chiusura linguistica o a una voluta impermeabilità rispetto alle grandi conquiste delle avanguardie. Giorgio lascia infatti filtrare nella sua grammatica figurativa, alcuni stilemi cubisti, desunti appunto dalla koiné postcubista del secondo dopoguerra italiano, ma rivissuti e fatti propri nel nitore e limpidezza di forme che gli era peculiare. Si veda la ripresa, anche tarda, in opere tra le migliori, di certe linee spezzate o della scomposizione triangolare dello spazio, mezzi volti ad un linearismo profondamente disegnativo e grafico che è cifra di fondo del suo operare, ma volti anche ad una costruzione ellittica e spigolosa dello spazio, mai in lui ortogonale, che ritornerà in modo esemplare nel momento in cui, in opere sacre, vorrà predicare uno spazio diverso dalla dimensione puramente umana, (tras)umanamente ascensionale come nel Getsemani (1957), oppure quando riprenderà elementi del dinamismo futurista, come osservato da Francesco Federico Mancini[11] per il linearismo ascendente  de Il grande casolare (1953).

Giorgio Maddoli, "Il Grande Casolare" (1953)
1 Il grande casolare, 1953, olio su tela, 88×59,5 cm, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia

 

Per quest’ultima, in particolare, si potrà forse specificare un influsso del  dottoriano Incendio-città. A Picasso, d’altro canto, aveva guardato con grande attenzione, pescando anche in acque pre(e altrove proto)cubiste, già a cavallo tra quarto e quinto decennio – presenta infatti nella IX Sindacale del 1942 a Perugia una Visitazione, di accenti primitivisti, nutrita del Picasso del periodo blu. A lui ancora si volgerà più volte, a mio avviso, e spesso proprio nella specifica accezione di quella straordinaria stagione, riprendendone le atmosfere intensamente umane, l’indagine fra i poveri[12] e gli emarginati, appunto le stesse cromie – una eco lontana anche nello straordinario ritratto di Vecchio, 1950.

Giorgio Maddoli, "Il Vecchio" (1950)
2 Il vecchio, 1950, olio su tavola, 61×44 cm, Fondazione Cassa di Risparmio, Perugia

 

Si può forse postulare che ci sia stata anche in seguito una convergenza originale e garbatamente dissidente rispetto al realismo socialista, il quale, nato con il nume tutelare di Picasso – in accezione Guernica – , era poi confluito in una lingua pianamente figurativa e volutamente antiavanguardista.

ARTISTA

Giorgio Maddoli ribadirà la sua scelta di campo alla luce degli sviluppi neoavanguardisti dei Cinquanta e dei Sessanta, rifiutando l’iconografia, fotografata da Namuth[13]– dell’arte come esperienza[14], e come rito dionisiaco[15] per certi versi – di un Jackson Pollock al lavoro. Quella nuova immagine, sanciva in modo nuovo, o ulteriormente approfondito, questa figura d’artista, facendone l’emblema dell’artista avanguardista americano.
L’artista incarnato da Maddoli, al di là di elementi caratteriali, è un artista il cui statuto è riconosiuto e integrato nella società. E’ appunto, come si diceva, l’artista della tradizione accademica, come era predicato prima, oppure oltre, la crisi di quello statuto e di quella istituzione in ambito romantico e poi avanguardista. Contraddittoriamente, le vicende americane da Pollock in poi consisteranno in una sorta di reintegrazione, sotto le mentite spoglie di una categoria totalmente opposta, peraltro non priva di concreti elementi di tragica realtà esistenziale[16]. Gli individui erano apocalittici ma l’uso, anche in termini di potere e di inculturazione più o meno soft, che venne fatto della loro arte stabiliva una integrazione (a volte a posteriori) di questo nuovo ruolo all’ombra di esigenze geopolitiche, sociali e autorappresentative, o almeno di nation-building culturale[17]. Per cui, anche se in modo paradossale, il nuovo artista maledetto americano dei Quaranta, dei Cinquanta, e oltre, è (o meglio sarà ben presto) integrato e funzionale al sistema sociale nonché alla propaganda culturale.
La reale integrazione di Maddoli nel suo – pur piccolo – mondo era invece concreta e storica, ma anche – ed è importante – individualmente agita e non eterodiretta,  come sincero era l’ancoraggio ad una visione euristica di tipo religioso, saldamente fondativa della sua visione. In tal senso quello che potrebbe sembrare un attardamento o comunque un tirarsi fuori rispetto ad alcuni termini del dibattito fu invece forse – lucidamente, per quanto alcuni processi si vedano meglio da lontano – una consapevole strategia di opposizione e resistenza, perlomeno una convintissima non adesione, un legittimo e libero dissenso.

MAESTRO (MAESTRI)

Contraltare l’uno dell’altro, Maddoli e Checchi, suo maestro, erano in questo specularmente concordi. Alieni entrambi dalla febbre avanguardista, oppositori entrambi rispetto a quel modo di concepire l’artista – e si consideri che l’ombroso Checchi, che di sé ci ha lasciato, tra molto altro, l’Autoritratto dei piatti rotti, era tutt’altro che sereno, mentre altro lasciano pensare i paesaggi spesso immmoti di Maddoli e le concordi testimonianze che lo riguardano. Se Checchi ha costeggiato, nel soggiorno monacense e nei relativi ricordi sparsi nella sua produzione, l’esperienza espressionista, poi rifiutandola, o superandola, senza dimenticarla, in una scelta diversa, di maggiore dialogo con la tradizione, Maddoli si trovò appunto di fronte il discrimine del postcubismo e delle vie non figurative, segnatamente nel dopoguerra, e poi, tra Cinquanta e Sessanta, il bivio dell’Informale e la definitiva scissione concettuale.
Il rapporto con Arturo Checchi fu costitutivo: il pittore si diploma all’Accademia di Belle Arti nel 1940. Da poco (dal 1939) ne era divenuto direttore Gerardo Dottori, mentre contestualmente passava a Brera lo stesso Checchi, che dal 1925 aveva dominato, lasciando profondissima traccia, la cattedra di Pittura perugina. E’ significativo osservare che, in base alla testimonianza della stessa figlia Cristina[18], l’allievo non amò troppo Checchi, che aveva, pare, il potere di irritarlo per il suo fare troppo assertivo e poco incline alla didattica d’arte come dialettica tra generazioni e opzioni espressive. Significativamente, l’unica passione violenta che si ricordi del mite pittore. Né desta soverchio stupore: troppo lontani e troppo vicini, i due, per potersi amare – o ignorare.
L’intensità espressiva di Checchi tuttavia non fu senza conseguenze nella pittura di Maddoli, più pacificata, certo, ma non meno vibrante. Anche i soggetti sembrano talvolta emulare, o rispondere alla sfida, dei soggetti checchiani, in un processo che diventa peraltro ben presto paritetico: si vedano le bellissime Letture (entrambe 1940) o i meravigliosi ritratti (si vedano, tra i tanti: Ritratto di Angela, 1945; Chiara con la palla, 1952; Cristina con il fiocco azzurro, 1956).

 

Un vero e proprio confronto si evince, poi, in Nonna Ginevra, 1943, che gareggia con la Madre di Cecchi del 1939, e così ancora, almeno fino al 1948, in altre scene domestiche, cariche cromaticamente ed affettivamente. Certamente, se entrambi furono straordinari disegnatori, il disegno di Maddoli sembra padroneggiare il reale con un rigore e una precisione (Torre degli Sciri, 1966; Via Vincioli, Perugia, 1948) direi anche con una fermezza e serenità, precluse al segno nitido e incisivo, ma intimamente sempre sofferto di Checchi.

Giorgio Maddoli, "Via Vincioli, Perugia" (1948)
5 Via Vincioli, Perugia, 1948, olio su tavola, 49,5×38,5 cm, collezione privata

 

Arturo, tormentato e materico, è più sontuoso e sensuale, tra bagliori seicenteschi e reminiscenze espressioniste, Giorgio, loico e parco, è più casto. Tuttavia il pittore perugino trasforma, senza eluderla né dissolverla, la tormentata matericità del maestro e ne vira la tavolozza alla luce di un umbro en plein air. Ne discute, sottoponendolo a rigida verifica, il rapporto con la tradizione, che fa sterzare alla luce del magistero di Carrà (La torre, 1953; Marina adriatica tenda bianca, 1955), pur nella comune matrice cézanniana e postcézanniana. Ripensa in particolare, credo, ad alcune esperienze, tra postcezanniane e protoavanguardiste, soprattutto precendenti il Cubismo: si veda un certo modo di affrontare luci e volumi dei paesaggi all’Estaque tra il prototipo di Cézanne e le Case di Georges Braque (Baracche, 1947). Ma resta alieno dal problema dello spazio nel senso in cui esso tormenta Enzo Rossi e in modo diverso lo stesso Checchi; o  meglio: Giorgio Maddoli lo risolve nella luce meridiana e nel paesaggio umbro, in un rapporto costitutivo con la specificità del territorio e la natura.

Giorgio Maddoli, "La Torre", 1953
6 La torre, 1953, olio su tavola, 53×39 cm, collezione privata, Perugia

 

Sebbene poco ovvio un compagno più che un contraltare è in questo senso Dottori, che ritrova una ispirazione autentica dopo il ritorno a Perugia. E proprio in una visione archetipica e aurorale del paesaggio umbro, ispirerà a sua volta, per filiazione o per contrasto, nuovi sviluppi. Dottori, per il quale ho avuto altrove[19] occasione di postulare un percorso simbolico tra quarto e quinto decennio, conosce, dalla metà dei Quaranta, un’acme di questa sua fase, riassumendo, pur nel recupero della scomposizione futurista, significati onirici e di afflato metafisico, sviluppo consequenziale della temperie spiritualizzante del 1942, anno in cui aveva trasfigurato il lago in όmfalos primigenio. Lontani entrambi, tuttavia, da un paesaggio legato più o meno programmaticamente (o comunque riconducibile) alle ideologie rurali del fascismo, recentemente chiamate in causa[20] – . E basterà ad esempio ricordare che nella produzione di Maddoli è quasi sempre assente la figura umana.
Un altro maestro fu Aldo Pascucci, a cui fanno capo due elementi importanti anche per il suo futuro. Intriso di echi surrealisti e onirici nella produzione dei Quaranta, potrebbe essere stato anche tramite o almeno compartecipe, di una situazione latamente surrealista che in Enzo Rossi si declina con atmosfere forse daliniane. Tale situazione era certo in parte mediata dall’ambiente romano, soprattutto della Cometa, mentre si deve sicuramente al diretto confronto con quella temperie, declinata in molteplici accezioni, e con la specifica e flagrante lezione mafaiana in particolare, confronto maturato con il Premio Perugia – e già prima con la Galleria Nuova – l’accento cromaticamente caldo e raccolto che si ritrova in interni e nature morte di grande maestria della fine dei Quaranta – Il libro, il fiore, 1947 . Tuttavia il colto magistero di Pascucci non fu affatto secondario.

PAESAGGIO (e NATURA)

Finito l’Istituto d’Arte iniziò la nostra impresa di pittori e anche questa la iniziammo assieme e non tanto nell’Accademia quanto andando a dipingere il paesaggio con la guida del nostro carissimo insegnante di incisione il Prof. Aldo Pascucci”, scrive Enzo Rossi. Dirimente appare quindi la scelta dei tre artisti di uscire dalle aule e dagli studi per andare all’aria aperta, nella natura. Da lì in poi, ricorda il pittore, lui e Pascucci iniziarono a interrogarsi sul problema dello spazio e dell’arte moderna ma tutti insieme sentivano il problema di una visione unitaria, per la quale Maddoli trovò la risposta: “In particolare, in quel momento, il dipingere il paesaggio fu decisivo per Giorgio”, continua Rossi (cfr. Paesaggio umbro, 1945).

Giorgio Maddoli, "Paesaggio Umbro" (1945)
7 Paesaggio umbro, 1945, olio su tavola, 26×37 cm, collezione privata

 

Non sarà fuori luogo allora citare la “Georgica cristiana”, di cui parlò a suo tempo Camillucci[21]. Fu una scelta, mi preme sottolineare, di valore anche etico e politico, in una  poetica fatta d’antiretorica, che suggeriva lo studio, anche in senso etimologico, della bellezza dei luoghi, della lezione del paesaggio. Un confronto cogente si dovrà istituire a mio avviso, per ragioni linguistiche e sostanziali, anche con Giorgio Morandi, e in particolare con i suoi paesaggi del sesto decennio, nei quali il consueto silenzio morandiano, sembra rapprendersi in certe ombre profonde o in certi contorni di case. (Paesaggio con albero, 1964).
Va peraltro sottolineata la differenza fra opzioni diverse, maturate in quei decenni tra Umbria e Roma a proposito di temi simili. Il paesaggio, ovvero la natura antropizzata e civile, amica ma liricamente distante, immota e deserta, intellettuale e depurata, scevra di ogni contingenza, emendata dalla stessa presenza umana, di Maddoli è una via differente rispetto allo spazio incarnato della topografia esatta, che loda l’ordine cosmico, di Rossi e ancor più lontana rispetto alle poetiche del colore rispettivamente di Enzo Brunori, con la sua biblioteca degli alberi, istanza ad un tempo visiva e politica, e di Vittoria Lippi, con il suo rovesciamento esistenziale e introspettivo nell’opera o ancora, allargando il campo, di Renato Birolli. Ma erano comunque operazioni effettuate sulla base di una piattaforma comune,  e sia pure in modo diverso ponevano, con gli strumenti propri del fare arte, un incipiente problema ecologico, quanto mai prezioso e tempestivo nei bivi di fronte ai quali si trovava il Paese – e il pianeta.
Il suo percorso fu, secondo Enzo Rossi, un “continuo, lunghissimo, paziente dipingere dal vero (…), Giorgio “è stato un uomo di pazienza attiva, continua e libera…e ciò lo ha portato ad un vedere veramente il paesaggio in una ben definita rivelazione di una sua bellezza esistenziale quale aspetto della verità dell’opera di Dio; rivelazione che lo ha confermato in verità artistica e fede religiosa per tutta la vita[22].

REALISMO

Non fu d’altra parte per nulla insensibile ai molti argomenti che infiammavano il dibattito sociopolitico di quegli anni, ponendosi anche, in particolare, il problema del realismo.
Intorno al 1948 affiora nella sua pittura un tratto grosso nero di contorno, probabilmente desunto da Rouault, come giustamente indicato da Francesco Federico Mancini[23]. Un nuovo lemma stilistico che si intreccia al ricorso di certi ritratti popolari checchiani, riletti, anche in chiave etico-politica, alla luce del dernier cri realista di Romeo Mancini. Vedi anche il Vecchio, 1948, tra tavolozza calda, intenti anche sociali, e un’intenzione religiosa, una attenzione umana, una penetrazione psicologica che costituiscono la sua cifra più vera. Contrappasso esatto della espunzione della figura umana nel paesaggio, il soggetto ritorna nei ritratti, genere che praticò con eccelsi esiti, segno della sua osservazione del reale anche in senso psicologico e storico-sociale, come di una notevole capacità introspettiva. Si veda, stupendo, l’Autoritratto con il basco del 1951.
L’influenza, filtrata, del linguaggio postcubista del dopoguerra emerge, pertinente, in occasioni di pittura di storia: si veda la  bella Veglia del partigiano del 1955. Il dialogo con Mancini e con le istanze guttusiane è qui patente (cfr. anche Il pescatore, 1961).

SACRO

Fu sacra, s’è già detto, tutta la sua pittura. A fronte di ciò vi fu anche, non così frequente come ci si potrebbe aspettare tuttavia, una puntuale e costante presenza sul versante specifico dell’arte sacra (…E si fece buio…, 1961) e della decorazione ecclesiale, per la quale si potrebbe tracciare un apposito itinerario umbro, dalla Santa Rita del  1960 per la Chiesa di Sant’Agostino alla Via Crucis di Santa Maria del Colle a Perugia, del 1964, alla vetrata con il Beato Ugolino per Gualdo Cattaneo pure del 1960 al Sant’Omobono Tucenghi per l’Oratorio dei Filippini a Perugia, del 1966[24]).
Ugualmente, se non più importante, fu il ruolo giocato nell’organizzazione culturale, dapprima con le mostre dell’UCAI, nel dopoguerra. L’Unione Cattolica Artisti Italiani ribadiva l’intreccio tra fede e arte che istanze propulsive diverse o tendenze secolarizzanti cercavano di sciogliere. L’azione portata avanti da Maddoli fu d’altra parte intelligentemente ecumenica e le mostre organizzate non furono mai questioni strettamente confessionali. E’ un particolare saliente per comprendere il tenore e il respiro della sua visione, delle sue iniziative, della sua influenza, non sbandierata ma profonda – e intensa, nonostante una vita troppo breve – nella situazione perugina. In seguito, in collaborazione con padre Antonio Cistellini, fu attivo nell’organizzazione di un importante appuntamento, le Mostre Nazionali d’Arte Sacra, che curò per diciotto edizioni dal 1951 al 1973[25]. Un lascito ora disatteso e che forse invoca ulteriori riflessioni, stimolandoci a considerare anche l’attuale stato di quella specifica ricerca.
Vorrei riconnettere al sacro, e dunque alla categoria della fede, per lo spirito evangelico che credo lo sostenne, il suo impegno nell’educazione dei giovani, ai quali trasmise, riprendo le parole del ricordo di Piergiorgio Giacché, “la libertà insegnata per contagio, da maestro ad allievo”[26].

ESSERE NEL TEMPO

Fu appartato, s’è detto, fino ad apparire addirittura estraneo al dibattito contemporaeneo. Tuttavia, si crea, in quegli anni, una frattura, dolorosa eppure voluta, fra la ufficialità della ricerca, talvolta appiattita sul dibattito internazionale, e un estremamente variegato tessuto, soprattutto pittorico, che rifiuta, o si autoesclude da, quel dibattito. E’ una traccia profonda anche nella storia recente dell’Umbria, e della città. Profonda e ambigua: si muove infatti sul filo di una autenticità esistenziale e artistica che, se lucida e ben motivata, sfocia nella resilienza poetica di un Maddoli, nella materia soffertamente amata di un Checchi, nella valenza politica della poetica del colore di un Brunori o nell’indagine introspettiva nel colore di una Lippi, nell’indagine sullo spazio, religiosamente motivata, di un Rossi, nell’attenzione storicistica, non di rado volta all’eversione fantastica, di Mancini – e molti altri ancora si potrebbero citare. E così facendo vivifica, in una autentica varietà di posizioni, ben lungi da centralismi e imposizioni di qualsiasi tipo, una vera e ampia dialettica. (Per converso, ove si tratti di posizione ideologica o sterile polemica, sottrarsi al dibattito può essere  un infecondo ripiegarsi).

ESSERE SENZA TEMPO

“Il pieghevole filo di ferro del disegno (…) conduce il materiale all’immateriale”, scrive Alfredo De Poi[27]. Un tramite possibile solo all’interno di una scelta molto sorvegliata sul piano linguistico e compositivo. L’essenzialità fu una categoria profondamente maddoliana: tutto è semplificato in una riduzione, filosofica, agli elementi. Vi è una sorta di idea archetipica (verrebbe da dire platonica) del capanno, della casa, del covone (cfr. Il capanno rosso, 1955).

Giorgio Maddoli, "Il Capanno Rosso" (1955)
8 Il capanno rosso, 1955, olio su tavola, 59,5×78,5 cm, Fondazione Cassa di risparmio di Perugia

 

La strada indicata prima da Cézanne e poi da Braque (in parte da Picasso) all’Estaque viene portata avanti in altra direzione, e con Carrà compagno di strada, ma qui, oltre la fisica, c’è la teologia.
Il tempo è avvolto nel silenzio, negato nel suo divenire – sebbene ne sia talvolta accolta la ciclicità. C’è la stagione, tuttavia non l’ora. Il giorno è colto, ma per sempre, dunque reso emblematico, eternato.  Gli articoli, davanti ai nomi, sono tutti determinativi.
Un’operazione sofisticata e complessa, resa possibile solo dalla verifica linguistica che gli fu propria. Costante fu infatti la strenua critica, in senso filologico, dei propri mezzi, forma mentis forse desunta dallo stesso Modernismo, costante l’intenzione di usare tutto ciò che la civiltà contemporanea ha acquisito ma per migliorare e riverificare dall’interno lo stesso linguaggio, senza distruggerlo o sovvertirlo: fu questo credo il senso di fondo della sua operazione, davvero moderna e, nel senso già delineato, modernista. I cieli vuoti, “un oggetto-soggetto” (…), “quella che potremmo definire la poetica del vuoto d’azione” – scrive Francesco Federico Mancini[28] – sono in questo senso molto vicini anche alla sensibilità odierna; e ogni lemma è riportato alla sua originaria figura. Da qui la concentrazione estrema, il segno icastico, la composizione parca come un teorema, la castità della pittura che lo rendono classicamente moderno.
Maddoli non  parla (solo) ai contemporanei: si pone il problema della storia, inserendosi nella genealogia e rivolgendosi ai posteri, ma la vera interlocuzione è con Chi è fuori dal tempo.

[1] “L’intima discrezione della pittura.” Giorgio Maddoli (1916-1978), catalogo della mostra a cura di Francesco Federico Mancini, Perugia, Palazzo Baldeschi, 21 novembre 2015 – 21 febbraio 2016, a cura di F. F. Mancini, aguaplano, Perugia 2015.

[2] Giorgio Maddoli (1916- 1978) La poesia di un pittore dell’Umbria, catalogo della mostra, Firenze, Palazzo Bastogi, 6- 20 aprile 2018, Consiglio Regionale della Toscana, s. l. 2018, con bibliografia essenziale.

[3] Hal Foster, Rosalind Krauss, Yve-Alain Bois, Benjamin H. D. Buchloh, David Joselit  Arte dal 1900, Modernismo.  Antimodernismo. Postmodernismo, a cura di Elio Grazioli, Zanichelli, Bologna 2013 (edizione consultata; edizione originale 2004).

[4] F. Di Pilla Francesi e italiani nel cuore di una crisi (Lettere inedite di Alfred Loisy, Paul Sabatier, Albert Houtin, Ernesto Buonaiuti, Romolo Murri, Francesco Mari e altri, estratto degli «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Perugia», vol XIV, 1976-1977.

[5] VII Mostra Interprovincialedel Sindacato Fascista di Belle Arti, Terni 1939.

[6] Su Enzo Rossi mi permetto di rimandare al mio B. Pedace Perugia liberata Arte e sistema dell’arte a Perugia da fine anni Trenta ai primi anni Cinquanta, con prefazione di Enrico Crispolti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012.

[7] Flavio Cuniberto I paesaggi del Regno, Neri Pozza, Milano 2017.

[8] Cfr. Michele Dantini “Quiete”, demografia, Impero. Motivi ideologici nel quadro di paesaggio in Italia nel periodo dell’entre-deux-guerres”, in Una profondissima quiete. Riccardo Francalancia e il ritorno alla figura tra De Chirico e Donghi, catalogo della mostra a cura di Beatrice Avanzi, Vittorio Sgarbi, Michele Dantini, Assisi, Palazzo Bonacquisti, 18 maggio- 4 novembre 2018, Fondazione CariPerugia Arte, Fabrizio Fabbri Editore, Perugia 2018.

[9] Umberto Raponi Testimonianza in Giorgio Maddoli, catalogo della mostra a cura di Antonio Carlo Ponti e Fedora   Boco, CERP, Centro Espositivo Rocca Paolina, 17 settembre- 9 ottobre 1994, con scritti di Italo Tomassoni, Massimo Duranti, Mariano Apa, con bibliografia, Accademia di Belle Arti “Pietro Vannucci”, Perugia, 1994, s.l. 1994.

[10] Cfr. Marcello Camillucci Ricordo di Giorgio Maddoli, in G. Maddoli, catalogo della mostra, con antologia critica, Edizioni Grafica Salvi, Perugia 1979.

[11] F. F. Mancini “L’intima discrezione della pittura”, in “L’intima discrezione della pittura.” Giorgio Maddoli (1916-1978), catalogo della mostra, cit.

[12] Notevole in questo senso il suo volontariato nella San Vincenzo, nella quale coinvolse anche Rossi; cfr. E. Rossi, cit.

[13] Cfr. R. Goodnough Pollock Paints a Picture, fotografie di Hans Namuth, «ARTnews», vol. 50, n. 3, maggio 1951.

[14] Mi riferisco naturalmente a John Dewey – Art as Experience, Putnam, New York 1934; prima edizione italiana L’arte come esperienza, traduzione e cura di Corrado Maltese, La Nuova Italia, Firenze 1951. Per un contributo piuttosto recente cfr. Marco Senaldi Art as experience e l’arte contemporanea in Esperienza estetica a partire da John Dewey, a cura di Luigi Russo, Supplementa, «Aesthetica Preprint», 21, dicembre 2007, Centro Internazionale di Studi di Estetica, Palermo s.d.; il volume, a cui si rimanda per intero, contiene numerosi altri saggi. Senaldi ricorda l’influenza esercitata da Dewey su T. Benton, maestro di Pollock e riconduce il mutamento di rotta dello stesso Pollock proprio al folgorante incontro con la filosofia di Dewey.

[15] L’interpretazione suggerita da quelle fotografie era appunto profondamente interrelata a un’idea di arte come processo e come esperienza, di matrice deweyana. Aggiungerei problematicamente una componente quasi primitiva e rituale, anch’essa in qualche modo non del tutto estranea a quella concezione. Su questi temi cfr. B. Pedace Interrelazioni tra l’arte italiana e gli Stati Uniti (1963-1971). Problemi estetici e critici, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018.

[16] I percorsi esistenziali degli artisti lo testimoniano ad abundantiam.

[17] Cfr. il mio Interrelazioni…, cit.

[18] Ringrazio Cristina Maddoli, preziosissima fonte di questo scritto, per la grande disponibilità e le appassionate testimonianze.

[19] B. Pedace Perugia liberata…, cit.

[20] Cfr. M. Dantini “Quiete”, demografia, Impero..., cit. Per Dottori, ma in altra chiave, si può ricordare la versione metaforica del paesaggio fatale dell’antica madre, nell’affresco all’Università per Stranieri di Perugia  – La luce dell’antica madre, 1937, dunque precedente rispetto al periodo di cui ora si sta trattando – di cui ho avuto occasione di occuparmi in dettaglio nel volume sull’arte a Perugia dai Trenta ai Cinquanta, già citato, al quale rimando.

[21] M. Camillucci Ricordo di Giorgio Maddoli, cit.

[22] Enzo Rossi Ricordo di Giorgio Maddoli, in G. Maddoli, catalogo della mostra, cit.

[23] F. F. Mancini “L’intima discrezione della pittura”…, cit.

[24] Una disanima in Massimo Duranti Arte per il Sacro, in Giorgio Maddoli, catalogo della mostra a cura di Antonio Carlo Ponti e Fedora Boco, cit.

[25] Cfr. Arte sacra in Umbria, catalogo della mostra a cura di Mimmo Coletti, Massimo Duranti, Antonio Carlo Ponti, Palazzo dei Priori, Perugia 1986.

[26] Piergiorgio Giacché Testimonianza in Giorgio Maddoli, cat. della mostra a cura di Antonio Carlo Ponti e Fedora Boco, cit.

[27] Alfredo De Poi Testimonianza in Giorgio Maddoli, cat. della mostra, cit.

[28] F. F. Mancini “L’intima discrezione della pittura”, in “L’intima discrezione della pittura”. Giorgio Maddoli (1916-1978), catalogo della mostra, cit.

 

Formata all’Università di Perugia e dottore di ricerca in Storia dell’Arte all’Università di Siena con E. Crispolti, Bianca Pedace ha conseguito un dottorato all’Università per Stranieri di Perugia. Docente di Estetica all’Accademia di Belle Arti di Perugia e  a quella di Reggio Calabria. Curatrice indipendente; è autrice di monografie tra cui: Vittoria Lippi, Rubbettino, 2011; Perugia liberata. Artisti e sistema dell’arte a Perugia da fine anni Trenta ai primi anni Cinquanta, Rubbettino, 2012; Interrelazioni tra l’arte italiana e gli Stati Uniti (1963-1971). Problemi estetici e critici, Rubbettino, 2018. Pratica e professa l’interrelazione tra il versante storico, critico e teorico.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.