Privacy Policy Questioni di traduzione / Problems in Translation
Luigi Cimmino Gregory Conti Vol. 8, n. 2 (2016) Conoscenza

Questioni di traduzione / Problems in Translation

problemi di traduzione: analisi a cura di Luigi Cimmino e Gregory Conti

 

Cosa rende i traduttori infedeli?

“Credo nella fedeltà ma non sono praticante” 

(Anonimo)

 

Difficile incontrare un traduttore, anche bravo, che non sia convinto dell’adagio per cui “tradurre è in parte tradire”. Ma perché?
Per tradire occorre essere ovviamente in due – coniugi, fidanzati, compagni – e i partner sono tali all’interno di un vincolo che li impegna oltre il loro comportamento di fatto, vincolo in virtù del quale il comportamento viene valutato: se non si dovesse e potesse essere fedeli svanirebbe anche l’amaro patito dal tradito e il brivido che infiamma il traditore. Ricordo un conoscente che negli anni settanta teorizzava con entusiasmo l’impossibilità teorica del tradimento. L’amore non è fatto – argomentava serioso – d’impegni contrattuali. X e Y formano una coppia solo nei momenti in cui si frequentano; se e quando Y si accoppia con Z – lo dice la parola, aggiungeva gongolante – una coppia si forma e l’altra svanisce; ergo, il tradimento non esiste! Il disgraziato ha poi patito sulla pelle la fantastica precarietà della sua logica, che però allude a un’imbarazzante questione proprio nella traduzione.
A quale condizione posso sapere mentre traduco – questo il punto – che sto tradendo la lingua di partenza? Come posso insomma essere infedele se non ho di fronte alla mente l’intero significato che devo fedelmente trasportare? Devo pur capire che il significato in questione nella lingua d’arrivo è travisato, perciò coglierlo immacolato nella lingua di partenza. Ma se lo colgo in toto, per quale ragione non riesco poi a tradurlo? Forse perché non esiste un termine corrispondente? Se il significato è un’entità trasparente ed evidente che la mente afferra e su cui appiccica un suono e un segno convenzionale, perché mai non dovrei trovare nella mia lingua un segno del genere, una veste arbitrariamente idonea? Se d’altro canto il significato da tradurre non lo afferro (o non è addirittura afferrabile), come posso rendermi conto di tradire? Dell’eventuale travisamento se ne potrà certamente accorgere un altro traduttore, migliore di me. La conseguenza è sempre e comunque che una perfetta fedeltà mentale rimane la condizione del tradurre. Anzi no! Neppure questa è la conseguenza. Una fedeltà che non ammetta violazioni non è neppure fedeltà: mancando la possibilità di errare, in amore come nel tradurre, manca anche il risultato!
Una conclusione del genere nasce nelle aule di filosofia, e in una certa idea che in queste ci si fa del significato, non certo nelle discussioni fra traduttori, nella ricerca ossessiva della versione migliore, nella gelosia con cui, quando si crede di aver afferrato la perla traduttiva, si attende la versione a stampa senza comunicarla a nessuno. Quale sia questa idea del significato, da dove nasca e che problemi generi, son tutte questioni che in questa sede lasciamo ai filosofi[1].
Qui cerchiamo di capire in che contesto, a quali condizioni, nasce la percezione della “parziale” intraducibilità delle parole, e delle frasi, e la conseguente percezione del tradimento; di un tradimento sui generis, a volte inevitabile e senza colpa, che genera inadeguatezza ma non rimorsi. Penso fra l’altro che qualche indicazione a riguardo offra anche spunti per discutere la questione astratta trattata nelle aule di filosofia.

***

Vorrei dare tre indicazioni generali e progressive, assai sintetiche. La prima (A) riguarda termini che si presume falsamente non possano essere tradotti; si tratta in realtà di errori, a volte generati da pasticci concettuali della lingua di partenza, e che quindi non chiamano in campo alcun tradimento consapevole. La seconda (B) ha a che fare con difficoltà concernenti lo stile, e qui cominciano vere e proprie difficoltà che a volte riguardano, non sempre, l’aspetto semantico delle parole. La terza (C) è quella in cui un parziale tradimento diventa inevitabile. Un aspetto di B) si riversa anche in C), cosa che dovrebbe sottolineare come la grande difficoltà della traduzione – ovviamente sempre in generale – riguarda la letteratura più che la saggistica. Gli esempi portati sono a dir poco scarsi, e può ben essere che le mie osservazioni appaiano discutibili. Quanto interessa, di là dalla correttezza degli esempi, è il tipo di difficoltà che questi rivelano.
A) Gli esempi, anche per B), sono soprattutto presi dalle scienze umane e dalla filosofia, soprattutto nelle traduzioni dal tedesco e dall’inglese.
Il primo di questi riguarda il verbo tedesco erleben e le sue aggettivazioni e nominalizzazioni (ad esempio il sostantivo Erlebnis). Il tedesco oltre al verbo leben, che significa vivere, possiede anche il verbo erleben, formato appunto da leben e dal prefisso er-, che spesso indica la “riuscita”, la “soddisfazione” di quanto espresso dal verbo base (blicken, ad esempio, vuol dire guardare, erblicken scorgere). Ebbene, nella traduzione dei grandi testi della tradizione fenomenologica tedesca, in particolare nelle traduzioni delle opere di Edmund Husserl, è sembrato che erleben non avesse un corrispettivo in italiano, tanto da lasciarlo a volte non tradotto in tedesco. Quasi che solo le parole italiane che gli girano intorno permettessero al lettore di suggerire un concetto che la mente italiana non possiede. Se leben è vivere, cosa mai significherà erleben, una vita riuscita? In realtà il busillis è piuttosto semplice da sciogliere. In italiano posso sia dire “ho vissuto bene per molti anni” sia “ho vissuto momenti felici”. Nel secondo caso, i “momenti felici” sono quello che un tempo si chiamava “complemento dell’oggetto interno”: un sottoinsieme dell’insieme costituito dal vivere. I momenti vissuti non sono cioè qualcosa di diverso dal vivere, laddove, ad esempio, l’oggetto del mangiare, oggetto esterno, è fortunatamente un’entità ben distinta dal mangiare. Mentre quindi in italiano abbiamo sempre uno stesso verbo, in tedesco ne abbiamo due, con erleben che viene utilizzato per esprimere appunto oggetti interni. Ora, al sospetto che l’erleben tedesco avesse in sé chissà quali mantra semantici si è aggiunta, nel tradurre Husserl, una difficoltà dovuta ai contenuti espressi dal filosofo tedesco. Husserl afferma infatti che a essere erlebt (quindi per noi vissuti) sono ad esempio Ein Rot, ein Blau ecc., vale a dire un rosso, un blu e qui, e in molti casi analoghi, il traduttore ha tentennato, perché dire in italiano che “si vive un rosso o un blu”, sembra avere poco senso. Sembra piuttosto si possa avere esperienza di un rosso o di un blu, dove il verbo “esperire” non regge appunto “oggetti interni”: ciò che viene esperito non è un sottoinsieme dell’esperienza. Così, si è pensato di inserire nella traduzione di erleben sia la parola “vivere”, e allo stesso tempo, per rendere la frase sensata quando vengono erlebt entità come il rosso o il blu, di aggiungere “esperire”, che sopporta oggetti esterni. L’ircocervo che ne è venuto è stato “esperire vivente” (quasi se ne desse uno morto!) per il verbo, ed “esperienza vissuta” per il sostantivo Erlebnis. I dati fenomenologici husserliani, in italiano, sono quindi a un tempo, momenti del vivere (parti d’esperienza) e oggetti di cui si ha esperienza. Se ci si fosse limitati a tradurre alla lettera erleben con vivere, il lettore italiano avrebbe compreso tutto quello che Husserl vuole dire. Magari, come credo, anche le difficoltà della sua proposta.

Il filosofo e matematico austro-tedesco Edmund Husserl
1 Edmund Gustav Albrecht Husserl

 

Ancora due rapidi esempi. Il primo rovescerebbe la situazione a vantaggio della nostra lingua. Molti hanno pensato, e alcuni pensano ancora, che la lingua inglese manchi di una distinzione fondamentale in ambito conoscitivo. Alla coppia “conoscere/sapere”, presente anche in tedesco, in francese ecc., corrisponderebbe in inglese il solo verbo “to know”! Qui sarebbe la tradizione filosofica inglese a rivelare deficit cognitivi. Ma la differenza fra “sapere” e “conoscere” è semplicemente la differenza fra un verbo che regge una completiva (“sapere che …”) e uno che regge un complemento oggetto (“conoscere x”) e l’inglese, ovviamente, distingue le due strutture nel far seguire a “to know” un complemento oggetto (“I know it”) oppure una completiva (“I know that…”). Se c’è una differenza fra le due strutture, questa è compiutamente espressa anche in inglese.
Infine – spesso si sospetta – tutta la tradizione di filosofia morale italiana sembra mancare del “dovere morale”. Dove in tedesco si distingue müssen da sollen, in italiano abbiamo un solo dovere (in inglese il pacchetto dei modali è ancora più pingue). Così, si è pensato di tradurre müssen con dovere, e sollen con dover essere. Ma se i tedeschi hanno due parole dove noi ne abbiamo una, perché mai dover essere traduce sein sollen e non sein müssen (dove sein sta appunto per essere)? In dover essere già si dovrebbe aver capito che il dover è un sollen e non un müssen! In realtà il presunto “dovere morale”, quello dell’obbligo, non è affatto assente nella nostra lingua (magari è più assente nei comportamenti). Uno dei significati base di sollen in tedesco è quello di riportare in “discorso indiretto” gli imperativi di un “discorso diretto”. Se dico ad Ambrogio “per favore alzati!”, riportando il giorno dopo l’ingiunzione, potrò dire che avevo detto ad Ambrogio che “doveva alzarsi”, e qui in tedesco uso appunto sollen e non müssen. Le traduzioni dei testi kantiani di filosofia morale sono zeppi di dover essere. Sarebbe stato molto più opportuno, senza supporre l’esistenza di un puro “dovere morale”, usare semplicemente dovere: quando questo risponde a comandi, leggi, precetti (guarda caso gli imperativi kantiani!) è ben chiaro dal contesto.

***

B) Gli esempi in A) potrebbero continuare, e forse quelli fatti ad alcuni parranno anche dubbi. Ma quanto vorrebbero esemplificare è l’idea per cui l’infedeltà traduttiva non si fonda sull’esistenza di significati che una lingua possiede e che misteriosamente il traduttore afferra con la mente, ma di cui non ha l’equivalente nella lingua d’arrivo, nel nostro caso in italiano. Una credenza del genere si basa su una concezione (filosofica) distorta della natura del significato.
La cosa cambia se intervengono problemi di stile. Come accennato in tal caso il problema non nasce (se non per l’eleganza della scrittura) se ha luogo nell’ambito “scientifico”, mentre le cose mutano o possono mutare nell’ambiente letterario – particolarmente nella poesia. Cominciamo con un esempio tratto dalla sociologia.
Nelle opere di Niklas Luhmann, il maggior sociologo tedesco del secolo scorso, appare di continuo il verbo ausdifferenzieren e le rispettive voci nominali e aggettivali. Differenzieren è ovviamente in italiano differenziare, ma il problema dei suoi traduttori – le traduzioni di Luhmann sono davvero “ca**** amari”[2] – è il prefisso aus, tanto misterioso da far pensare ai suoi traduttori di cassarlo, lasciando differenziare, differenziazione ecc., (parole, evidentemente, con le quali il lettore italiano non deve fare troppi sforzi). Ora il senso di ausdifferenzieren è in italiano il seguente mostro: “autonomizzarsi attraverso differenziazione”. L’idea è quella per cui, secondo la “teoria dei sistemi” luhmanniana, la religione, ad esempio, è un sistema che si genera attraverso la progressiva differenziazione della società, di cui risolve un certo tipo di problemi. Arrivata a un certo grado di complessità, però, la religione si trasforma in un sistema autonomo che concepisce la stessa società come una delle sue differenziazioni. Poco importa qui che mi sia spiegato. È chiaro che non si può sostituire a ogni occorrenza di ausdifferenzieren e delle voci nominali e aggettivali l’orrendo autonomizzarsi attraverso …: i testi di Luhmann sarebbero diventati ancora più indigesti e illeggibili di quanto già non siano. Ma si poteva spiegare il significato del termine in nota e poi aggiungere un asterisco alle sue occorrenze, oppure, sempre dopo averlo chiarito, inventarsi un neologismo. Certamente lo stile ne avrebbe risentito, ma il complesso pensiero del tedesco sarebbe stato riportato paro paro in italiano.
Ci si immagini poi una donna seduta davanti a un ferro da stiro inattivo, e il suo uomo che pensa: “non mi stira!”. Se il mi è interpretato come dativo di vantaggio, ci troviamo di fronte ad un bieco maschilista, la signora non stira per lui, a suo vantaggio! Ma se il dativo è “etico” (spesso usato da scrittori toscani, da Palazzeschi fra gli altri), che l’italiano conserva dal latino e il latino dal greco, quel mi indica partecipazione emotiva e preoccupazione; il maschio maschilista tramuta così in un dolce e premuroso compagno. In inglese o in tedesco, che non hanno il dativo etico, occorrerebbe spiegare di cosa si tratta, ma nella traduzione la preoccupazione partecipata del dolce omino va ovviamente persa. Oppure si pensi al verbo inglese to rubberneck, usato fra l’altro per indicare gli sventurati che si fermano nella corsia opposta a contemplare un incidente. Come rendere in italiano l’immagine grottesca e da cartone animato di un collo di gomma che si allunga con cinica avidità dalla parte opposta? In questi e in miriadi di casi analoghi la mancata resa dell’immagine e dei sentimenti, per quanto possa essere del tutto compresa, toglie alla traduzione elementi che si fondono con il significato. Anche le carenze di una lingua possono inoltre dare i loro frutti. La coscienza di Zeno di Svevo è un titolo intraducibile in inglese e tedesco, lingue che possiedono termini distinti per la coscienza “cognitiva” e quella “morale”. Quella di Zeno è tutte e due in uno, e la sintesi va persa.
Chiaramente il gioco di stile, suoni e sensazioni è l’anima della poesia. Ne “il divino del pian silenzio verde” de Il bove di Carducci, giocano fra loro almeno quattro o cinque figure retoriche (anastrofe, iperbato, ipallage ecc.) con l’ultima, la “sinestesia”, che dà il tono di fondo al tutto. Nella sinestesia – una figura retorica ma anche un’alterazione del sistema percettivo – una certa proprietà viene attribuita a qualità sensibili incongruenti, così un colore può diventare croccante e una sensazione tattile zuccherina. Nel verso di Carducci verde, che appartiene a pian, segue il silenzio, creando un’atmosfera di pace intima, con un colore che accompagna l’assorta assenza di rumori. Non conosco traduzioni del verso, ma posso ben immaginare che molto dell’originale, suoni, metafore e sintassi, sostanza del verso, vada perso. Lascio infine al lettore l’abracadabra che potrebbe rendere in italiano il salto fra dentali e fricali del famoso incipit della Lolita di Nabokov: “Lolita […]. My sin, my soul […]: the tip of the tongue taking a trip of three steps down the palate to tap, at three, on the teeth. Lo. Lee. Ta.”

***

C) I problemi che abbiamo detto “di stile” creano quindi scarsi grattacapi allorché si tratta di rendere concetti astratti o teorie, dove è possibile parafrasare il vocabolo che manca. Cominciano a crearli quando ne va della resa dell’espressività della lingua di partenza. Esplodono poi in vere e proprie infedeltà in letteratura, e soprattutto nella poesia, dove l’espressione si fonde con il significato. Qui al tradimento, nel grande traduttore, si associa inevitabilmente la creatività. Non è un caso che le traduzioni di poeti fatte da poeti, anche quando il significato è travisato (vedi la famosa traduzione di Quasimodo dei Lirici greci), mantengono alta la resa lirica.
Ma è possibile comprendere uno o più significati e tradirli traducendo a prescindere da questioni di stile, di suono, di portata metaforica, come avviene nella poesia? È possibile, voglio dire, senza ricadere nell’idea per cui, se comprendo il significato nella lingua di partenza, devo poi poterlo rendere in quella di arrivo? E senza dover ricadere nell’idea balzana per cui comprendo uno spiritello mentale che non ha – chissà perché – uno suono e segno corrispettivo che lo veste nella traduzione?
Il fatto è che le parole acquistano il loro volume semantico, gli aspetti del loro significato, nei vari contesti d’uso in cui vengono applicate. Come i loro fruitori, le parole vivono una vita complessa e mutevole che poi si tramanda di generazione in generazione e che, in molti casi, scompare nel passato. Se le entità oggettive cui mira la scienza, ogni scienza, naturale o umana che sia, sono, almeno nelle intenzioni, termine di riferimento di verità che non mutano e non variano a seconda delle latitudini, i sentimenti, le abitudini, i giudizi di valore, il riconoscimento sociale, le aspettative, soprattutto la forza illocutiva (gli effetti che vogliamo producano) che le parole esprimono variano di cultura in cultura e, all’interno di queste, variano con il tempo. In questo senso le parole vivono all’interno di un ambiente e, sul loro uso in una specifica circostanza, gravano gli ulteriori usi in cui vengono espresse e scambiate per comunicare. Nel fardello di usi che la parola possiede in ogni singolo utilizzo, nelle diverse situazioni, risuona, per così dire, la sua storia, fatta appunto dalle molteplici e differenziate occasioni in cui è pronunciata o scritta. Questa multiforme vita, penso, l’accompagna in ogni singola occorrenza. To disturb in italiano corrisponde certamente al nostro disturbare, ma in inglese viene usato anche per esprimere il nostro turbare, una persona deeply disturbed è una persona profondamente turbata (non mentalmente disturbata!), e il verbo inglese può essere anche usato nel significato di muovere o spostare, ad esempio un corpo. Non voglio affatto sostenere che, nel disturbare una riunione, alla mente del parlante inglese si affacci l’idea del turbamento o dello spostamento di un oggetto: I don’t want to disturb him significa non voglio disturbarlo. Quanto intendo dire è che la parola, almeno in alcuni casi, risente dell’intero ambiente in cui viene usata, come il nostro passato pesa sulle nostre azioni. Ed è questo ambiente, quantomeno gran parte dei suoi echi, ad andare perso nella traduzione.
Si potrebbe obiettare, pur accettando la pregnanza semantica di un termine nel senso detto, che qualsiasi esempio io utilizzi per chiarire la cosa, riportando fra l’altro le indicazioni di un buon vocabolario, sto pur sempre spiegando in italiano il significato del termine, quindi ne riporto perfettamente, indicando i contesti d’uso e utilizzando parafrasi, il significato. Il fatto è che anche le parole che servono a definire e richiamare l’uso del termine alieno vivono di un proprio ambiente, diverso da quello straniero che intendono illustrare. Se è così, qualcosa va perso al di là degli sforzi, e quanto va perso è parte integrante di un’opera letteraria. Il modo migliore per comprendere tale situazione è quello di richiamare alla mente la nostra capacità, più o meno marcata a seconda delle sensibilità, di individuare, da una frase detta in una certa occasione, il carattere di un individuo che parla la nostra lingua, di ricavare da una frase il modo in cui questo si dispone di fronte agli altri, persino i suoi valori e preferenze, e le emozioni che li accompagnano. Dietro questa capacità sta una miriade di convenzioni che intuitivamente cogliamo perché ci appartengono in prima persona, perché siamo abituati a vivere la parola in situazioni analoghe. A fronte di tale capacità si pensi alla difficoltà di cogliere con altrettanta sicurezza il registro linguistico di chi parla una lingua diversa dalla nostra, che pure mediamente dominiamo. Se ora supponiamo un traduttore che domini perfettamente entrambe le lingue nei rispettivi contesti d’uso, magari perché ha vissuto a lungo in entrambi i paesi, possiamo immaginare la perfetta comprensione di significati cui si accompagna in certa misura l’impossibilità di tradurli, di riversare un ambiente storico e il suo potenziale espressivo in un ambiente diverso. La difficoltà diventa fondamentale, per ripeterlo, se si tratta di un testo letterario che della propria cultura è volta a volta la più intensa espressione. Un traduttore ideale che domini perfettamente la vita di due culture dovrà in parte riprodurre l’ambiente semantico che traduce, finché la lingua d’arrivo lo consente, in parte ricreare quanto va perso, mantenendo quanto più possibile analogie e aspetti comuni. C’è quindi una misura per cui il traduttore entra da attore nella produzione letteraria.
Per quanto mi riguarda, lontanissimo da una competenza del genere (infatti traduco a volte testi di saggistica), il piacere di leggere testi letterari in una lingua diversa dalla mia è anche il piacere di entrare in un mondo da esplorare e immaginare, cercando di afferrare almeno alcune risonanze dei tipi di vita che non ho vissuto.

Luigi Cimmino

 

[1]La metafora del suono o segno grafico che, come un vestito, viene convenzionalmente attaccato al significato genera un problema notoriamente messo in risalto da W.V.O. Quine, quello della strutturale “indeterminatezza della traduzione”. Ridotto all’osso si tratta di quanto segue. S’immagini un antropologo che entra in contatto con gli esponenti di una tribù di cui non conosce la lingua. L’antropologo non accede direttamente ai significati mentali, questi sono accessibili solo in prima persona, potendo solo osservare i suoni e segni convenzionali che convenzionalmente li esprimono. Ebbene, Quine cerca di mostrare come qualsiasi comportamento esteriore dei soggetti che osserva, a cominciare dal loro comportamento verbale, sia traducibile con frasi fra loro incompatibili. Le evidenze a disposizione per la traduzione lasciano questa inevitabilmente indeterminata. Del resto come accedere al significato, se questo è murato dietro alle sue convenzionali vesti fisiche? Il successivo passaggio di Quine è quello di far capire che – stando così le cose – tale indeterminatezza si estende alla stessa lingua dell’antropologo, mettendo in discussione il punto di partenza dell’esperimento: io stesso posso mettere in dubbio, e per le stesse ragioni, il significato dei parlanti della mia lingua, quindi del linguaggio che credevo di dominare. Sembra rimanga aperta solo la possibilità dell’accesso ai miei significati per ispezione interna, in prima persona, ma se i significati mentali fossero noti solo e soltanto per una sorta di autocoscienza interna, all’interno di un teatro mentale di cui sarei l’unico spettatore, a) le conseguenze sarebbero quelle del solipsismo (io solo so di avere mente e significati) e dei suoi paradossi; b) l’osservazione interna di entità mentali significanti è un mito, nessuno ne ha esperienza. La conclusione di Quine, da buon naturalista, è che “significati mentali” non esistono e che anche il linguaggio, come la natura, è composto esclusivamente da successioni di enti fisici causalmente connessi. Per confutare l’esperimento di Quine, che ritengo porti a conseguenze tanto inappetibili quanto quelle del solipsismo, occorrerebbe mostrare che il vestito linguistico, nelle diverse lingue naturali, rivela direttamente le caratteristiche dei corpi che avvolge come, e molto più, dei vestiti che avvolgono i corpi umani. Come detto abbandoniamo in questa sede gli arzigogoli dei filosofi, pur rilevando che l’argomento di Quine ha avuto importanti conseguenze nella filosofia contemporanea e che vari e complessi ne sono gli assunti. Fidiamoci del problema di partenza del traduttore, che è poi il dato osservato anche dagli antropologi: il problema è quello di rendere al meglio significati manifesti, non di tra-durre, di trasportare da una lingua ad un’altra, fuochi fatui mentali misteriosamente connessi a suoni e a segni.

[2]Ringrazio mia moglie per il suggerimento stilistico.

 

Mark Twain, "Huckleberry Finn", Einaudi
3 Edizione Einaudi di Huckleberry Finn di Mark Twain

 

Huck and Montalbano: Translating Dialectical Variety
There is a missing page in the Italian edition of the Adventures of Huckleberry Finn. The second page of The Library of America edition of Mark Twain’s masterpiece, presents an eleven-line note signed by The Author under the title EXPLANATORY:

In this book a number of dialects are used, to wit: the
Missouri Negro dialect; the extremest form of the back-
woods South-Western dialect; the ordinary “Pike County”
dialect, and four modified varieties of this last.
The shadings have not been done in a hap-hazard fashion,
or by guess-work; but pains-takingly,  and with the trustworthy
guidance and support of personal familiarity with these several
forms of speech.
I make this explanation for the reason that without it many
readers would suppose that all these characters were trying
to talk alike and not succeeding.

Published in 1963, translated and prefaced by Enzo Giachino, the prestigious Giulio Einaudi Millenni edition of Twain’s masterpiece is complete, except for this explanatory note from the author. Its absence is easily explained. Giachino’s translation does not attempt to render the dialectical variety that Twain worked so hard to create in the original. Here is one famous dialogue between Huck and Jim, from their discussion of the fate of the heir to the French crown who is rumoured to have escaped to America:

“I told about . . . his little boy the dolphin, that would a been a king
but they took him and shut him up in jail. . . .
But some says he got out and got away, and come to America.”
“Dat’s good! But he’ll be pooty lonesome – dey ain’t no kings
here, is dey, Huck?”
“No.”
“Den he cain’t git no situation. What he gwyne to do?”
“Well, I don’t know, Some of them gets on the police and some
of them learns people how to talk French.”
“Why, Huck, doan de French people talk de same way we does?”
“No Jim; you wouldn’t understand a word they said – not a single
word.”
. . .
“Is a Frenchman a man?
“Yes.”
Well, den! Dad blame it, why doan’ he talk like a man? You answer me dat!”

It is evident even from this brief dialogue that Huck and Jim understand each other and that their ways of talking have a lot in common. But there are also some obvious differences: Huck says “that”, “the” “get” and “don’t” while Jim says “dat”, “de,” “git” and “doan’,” not to mention the wonderful “gwyne” for “gonna”.
Now look and listen to the same dialogue in the Italian translation:

“Gli parlo . . . del suo bambino, il Delfino, che doveva diventar
anche lui re, ma l’hanno preso, e chiuso in prigione . . .
Ma altri dicono che è uscito, è potuto scappare e è venuto in America.”
“Così va meglio. Ma certo che si sentirà piuttosto solo. Qui non
ci sono mica dei re, vero, Huck?
“No.”
“Allora non può farsi una posizione. Cosa può fare?
Be’, non so. Alcuni fanno i poliziotti, altri imparano alla gente a
parlare francese.”
“Come, Huck, ma i francesi non parlano come noi?
“No, Jim, non capiresti una parola di quello che dicono, non una sola parola.” . . .
“E un francese è forse un uomo?”
“Sì.”
“E allora, che il signore lo benedica, perché non parla anche lui come un uomo?
Rispondetemi un po’, se ce la fate.”

Retranslating this Italian dialogue back into English gives the measure of the standard quality of the translated dialogue compared to the original.

“I talk to him . . . about his little boy, the dauphin, who was supposed
to be a king too, but they caught him and shut him in prison. . . .
But others say he got out and was able to escape and came to America.”
“That’s better. But he must certainly feel rather lonely. There sure aren’t
any kings here, right Huck?”
“No.”
“Then he can’t make a position for himself. What can he do?”
Well, I don’t know. Some join the police, others learn people to
speak French.”
“What, Huck, but don’t the French talk like us?”
“No, Jim, you wouldn’t understand one word of what they say, not
one word.”
. . .
“And isn’t a Frenchman perhaps a man?”
“Yes.”
“So then, God bless him, why doesn’t he talk like a man too?
Answer me that, if you can.”

In Italian, Huck uses imparare instead of insegnare as he uses learn instead of teach in English, but other than that his grammar is fine and so is Jim’s. More importantly, there are no differences in their ways of talking. Huck and Jim both speak nearly letter-  perfect standard Italian. Or to put it as Twain might have, whether or not they are trying to talk alike they are certainly succeeding.
Does this failure to represent Twin’s meticulous recreation of dialect amount to a glaring weakness in Giachino’s translation? To the extent the use of standard Italian fails to render the richness of the language of Twain’s narrative one might answer in the affirmative. Indeed, critical assessments of Twain’s novel have consistently highlighted its brilliant use of language. T.S. Eliot called the style of the novel a “new discovery in the English language,” remarking that there is “no sentence or phrase to destroy the illusion that these are Huck’s own words.”  And Richard Chase, in The American Novel and Its Tradition, observes that “The Adventures of Huckleberry Finn delights the reader first and last by its language. The book makes a music of words which is beautifully sustained and modulated to the very end.”
But supposing Giachino, or any translator, had decided to try to represent Twain’s use of multiple dialects in his translation, how could he have done it? Perhaps he could have had Huck and Jim and the other dialect speakers use an ungrammatical Italian. But dialect is not only a question of non-standard grammar. A dialect also has its own lexicon and phonetics, and even its grammar, while different, is no less complex or cohesive than the grammar of the standard. Then how about using Southern Italian dialects, Neapolitan or Sicilian say, to represent the various Southern American dialects in the novel? In a certain sense, it might well be said that Neapolitan is to Italian what “backwoods South-Western” is to American English.
If you put yourself in the position of an Italian reader of the novel, however, it immediately becomes clear that the analogous relationship of dialect to standard cannot sustain the choice to substitute one dialect for another. As Twain emphasizes in his EXPLANATORY, the dialects he has chosen to re-create are tied to and evocative of place, race, and history in ways that standard American English is not. It would take an extraordinary willing suspension of disbelief for an Italian reader to accept a black American slave or a Missouri-bred white boy holding forth in Neapolitan.
Strangely enough, however, like standard English or French, standard Italian does not require the same leap of faith. Although it is obviously the product of a different place and culture than Twain’s English, Italian is not, precisely because it has become a national standard, evocative of any specific geo-cultural location. Giachino’s American characters can speak standard Italian without distracting the Italian reader from the Americanness of their story because their language does not evoke a specific region or cultural history. The reader knows that the only reason they are speaking Italian is because otherwise s/he couldn’t understand what they are saying. The standard language gives the reader access to the characters’ different world without getting in the way, as their speaking in a recognizable regional dialect certainly would.
Of course, the same holds for translations in the opposite direction, as in the case of the American versions of Andrea Camilleri’s Montalbano novels. One of the reasons for Camilleri’s enormous success among Italian readers is his brilliant interweaving of Sicilian dialect into his otherwise standard Italian narratives. Even the made-for-TV film versions of the stories use some of the recurring words and phrases: “Montalbano, sono,” “macari” for “anche” (also) or “taliare” per “guardare” (look) or “spiare” per “domandare” (ask).

"La voce del violino" di Andrea Camilleri
4 Andrea Camilleri, La voce del violino (Sellero editore Palermo)

 

Here is a brief example of the Siculo-Italian interweaving from La voce del violino with the dialect words in bold:

Montalbano trasi nella Chiesa gremita, la funziona era appena prin-
cipiata. Si taliò torno torno, non racconiscì nisciuno. Tamburrano
doveva essere in prima fila, vicino al tabbuto davanti all’altare maggiore.
Il commissario decise di restarsene dov’era, allato al portone d’ingresso:
avrebbe stretto la mano a Tamburrano quando il feretro nisciva dalla chiesa.
Alle prime parole del parrino dopo già tanto che la messa procedeva.
ebbe uno sbalzo.

Now the same passage from Stephen Sartorelli’s translation:

Montalbano entered the crowded church. The service had just begun.
He looked around and recognized no one. Tamburrano must have been
in the first row, near the coffin in front of the main altar. The inspector
decided to remain where he was, near the entrance. He would shake
Tamburrano’s hand when the coffin was being carried out of the church.
When the priest finally opened his mouth after the Mass had been
going on for some time, Montalbano gave a start.

While Camilleri’s narrator peppers his account with about 10 percent Sicilian words and phrases, Sartorelli’s narrator uses standard English. The Italian reader might encounter some difficulty reading smoothly through the narrator’s description but his impression of the narrative voice will be flavored by all the associations and allusions expressed by the peculiar regional musicality of the language. The American reader of the translation will have access – through the proper names, the ceremony, the architecture of the church, other elements of the story – to the foreign place and culture but the access will be limited by the absence of the special musicality of the dialect.
Another regular character in the Montalbano mysteries, the entry level police officer and station receptionist Catarella, offers us another point of view on the question of dialect translation. Here is a dialogue between Catarella and Inspector Montalbano, again from La voce del violino, which resonates curiously with Huck and Jim’s dialogue about Frenchmen:

“Domando pirdonanza e compressione, dottori. . . . Tre giorni passati
cercarono proprio lei di lei, dottori, lei non c’era, però io me lo scordai
di farle riferenza.”
“Da dove telefonavano?”
“Dalla Flòrida, dottori. . . .
“Levami una curiosità, come vi siete parlati?”
“E come dovevamo parlarci? In taliano, dottori.”
“Ti hanno detto che volevano?”
“Certo, tutto di ogni cosa mi dissero. Dissero così che morse la
mogliera del vice-questore Tamburrano.”
[Montalbano] tirò un sospiro di sollievo. . . . Non dalla Flòrida aveevano
Telefonato, ma dal commissariato di Floridia, vicino a Siracusa.

At first glance, it seems that Catarella is speaking in dialect while Montalbano, a college graduate, uses standard Italian. A closer reading, however, reveals that, rather than dialect, Catarella is speaking bad Italian. He is a sort of Sicilian Mr. Malaprop, and Sartorelli renders Catarella’s mangled Italian with an analogous brand of mangled English.

“’Beckin’ pardon, Chief, for the ‘sturbance. . . . Tree days ago somebody
calls for you, Chief, wanted a talk t’ you in poisson, but you wasn’t ‘ere ‘n
I forgotta reference it to you.”
“Where were they calling from?”
“From Flòrida, Chief. . . .”
“Tell me something. What language did you speak with them?”
“What langwitch was I aposta speak? We spoke ‘Talian, Chief.”
“Did they tell you what they wanted?”
“Sure, they tol’ me everyting about one ting. They said as how Vice Commissioner
Tamburrano’s wife was killed.”
“Montalbano breathed a sigh of relief. They’d called not from Flòrida but from
police headquarters in the town of Floridia, near Siracusa.

So Sartorelli was able to render the difference in the way of talking between Montalbano and Catarella, but it is important to observe that what is at stake here is not dialectal variety but the difference between correct and incorrect standard language. Catarella’s malapropisms evoke not regional specificity but comically poor language skills. This kind of language difference is easier for the translator to represent, although one might remark that in some instances, at least to my ear, Catarella’s erroneous speech – “in poisson”, “everyting about one ting” – sounds a little too much like vaudeville Brooklynese, and to the extent that we hear that local resonance, Catarella may sound out of place.
What can we conclude from these examples taken from the Italian and English translations of these two masters of dialect, Twain and Camilleri? Rather than a definitive conclusion, I prefer to hazard the hypothesis that dialectical variety may indeed be one of those things that is inevitably lost in translation. Beyond that, it strikes me that this hypothesis, if true, may also be somewhat paradoxical. Our inability to translate dialectical variety may deny readers access to the very aspects of foreign cultures that are expressed by the peculiar and fascinating musicality of natural human speech.

Gregory Conti

 

Luigi Cimmino insegna Gnoseologia e Paradigmi Etici all’Università di Perugia.

 

Gregory Conti teaches English at the University of Perugia. His translations include works by Rosetta Loy, Giuseppe Berto, Sebastiano Vassalli, and Paolo Rumiz. For a full list of publications, visit www.gregoryconti.com.

 

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