Privacy Policy Guardare dentro la memoria comune per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia: il contributo di Leopardi “politico”
Carlo Calvieri Vol. 5, n. 1 (2013) Letture

Guardare dentro la memoria comune per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia: il contributo di Leopardi “politico”

Giacomo Leopardi
1 Giacomo Leopardi

 

«L’idea di un popolo si forma da una memoria comune, che deve essere critica per poter guardare lucidamente al passato» ed una memoria comune, a sua volta, si fonda su molteplici istituti. Tra questi il più significativo è forse la letteratura: «l’istituzione che conserva il passato attraverso la parola».
Bachtin afferma che per capire veramente il presente occorre il “tempo grande” della letteratura ed Hannah Arendt, riferendosi alle opere di Benjamin, ha scritto che il passato «ha autorità se fissato come tradizione, l’autorità, in quanto si presenta storicamente diventa tradizione» .
Se si vuole dunque riflettere sulla nostra identità bisogna ripercorrere le linee fondanti della letteratura italiana.
La letteratura è, infatti, il luogo in cui si crea l’identità di un paese e si conservano le sue tradizioni. Per A. Arbasino (Fratelli d’Italia) autori come Leopardi, Manzoni, De Sanctis, Croce e Gramsci, rappresentano alcune tappe fondamentali della letteratura italiana moderna, anche in confronto con quelle di altri Paesi, idonee a darci l’immagine della ns. identità.
Ezio Raimondi spiega che nella nostra tradizione letteraria, a partire da Dante è conservata la memoria comune degli italiani.
Certo l’identità nazionale apre una serie di problemi complessi, cui è anche legata la storia recente. Con le vicende successive alla seconda Guerra Mondiale ed a seguito dell’adozione della Costituzione repubblicana, la nuova società democratica associa necessariamente, al tema dell’identità, l’idea di nazione, ma lo fa aprendo un “processo” a termini come nazione o patria, intesi in maniera opposta all’accezione che questi avevano nel precedente ventennio ispirato al modello di Stato totalitario.
Si tratta quindi di cogliere questa identità nazionale evitando le derive proprie di ogni particolarismo etnico per riscoprire invece i valori più profondi ed avvalersene.
Nel senso democratico, quindi, l’identità nazionale deve rappresentare un insieme di cittadini che istaurano rapporti di reciproco rispetto, impegno, lealtà e fiducia e si fanno carico di mantenerli vitali, anche al di là di specifiche circostanze contingenti.
Perché questo si verifichi, occorre la formazione di una memoria comune, di una storia comune, che fotografi la nozione di cittadino, espressione ben diversa dal cosiddetto “nazionalismo”.
Cosa significa dunque essere italiani?
Essere italiani significa conoscere e saper riconoscere i percorsi letterari che fondano una comune identità culturale.
In quel grande “romanzo” che è la Storia della letteratura italiana di De Sanctis, l’Autore, concludendo il suo lavoro, si chiede se, partendo dalla storia della letteratura, intesa come memoria comune, sia possibile capire ciò che l’Italia deve ancora diventare.
La tradizione, in pratica, è anche usata in termini di non sola conservazione, ma di stimolo a crescere e trasformare, è, insomma la radice del “nuovo”.
Lo studio della letteratura si mostra come un insieme in grado di offrirci una coscienza nazionale moderna capace di dialogare con la “coscienza” dell’Europa moderna.
Per De Sanctis abbiamo il romanzo storico, ma ci manca la storia e il romanzo. Quindi occorre cercare in se stessi, evocando il motto testamentario di Leopardi dell’ “esplorare il nostro petto”.

Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani
2 L’edizione Feltrinelli del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani

 

Quanto sin qui premesso trova importante riscontro in alcune opere di Giacomo Leopardi ed emerge anche dall’epistolario che il poeta tenne con il Vieusseux (cofondatore con il marchese Gino Capponi dell’Antologia). Ma una delle opere da cui emerge, con grande evidenza, quella che potremo definire la “filosofia sociale” leopardiana è il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani. Dall’epistolario con il Vieusseux il Poeta loda le doti del giornale che promuove il progresso e la propagazione delle scienze morali , nel contempo però con malcelata modestia segnala la sua personale ignoranza sulle tematiche coinvolgenti i comportamenti sociali mettendo anche in dubbio la rilevanza sul piano filosofico del suo pensiero poco incline a seguire «…quel genere che si apprezza ed è gradito in questo secolo…».
In realtà, come si tenterà di dimostrare, è proprio grazie ad alcuni scritti significativi dello stesso Poeta, che viene in rilievo la mancanza, nell’Italia di quegli anni, di quella parte della filosofia che è di ispirazione sociologica, di teoria della società, che poi, sul finire del’800, tanto influenzerà la stessa giuspubblicistica italiana.
Il Discorso sopra il costume degli italiani per l’ampia riflessione sull’umanità dell’epoca, dovrebbe avere un sottotitolo: Quadro dell’Italia nel suo attuale stato morale, politico e letterario, è questa, infatti, la richiesta che in via epistolare fa nel 1826 il figlio dell’editore Stella a Leopardi.
Il volume richiesto dall’editore in realtà non nascerà mai, ma il Discorso è il prodotto di quella proposta che lo stesso Leopardi ricevette da Stella, tanto è che tracce di questi elementi si possono trovare nello Zibaldone, nelle stesse Operette Morali, nei Canti (e fra questi in particolare nella Palinodia) e nei Paralipomeni (Paralipomena = cose tralasciate) della Batracomiomachia, che è il tentativo di dimostrare l’esistenza di un sistema antisociale che antepone alla salute dei cittadini gli intrighi di palazzo e della politica del tempo.
Il Discorso sui costumi ha un suo peculiare retroscena cioè il confronto tra il ‘700 e l’800 ed è in quest’ultimo secolo che si crea una sorta di equiparazione tesa ad avvicinare la reputazione dei popoli d’Europa, sul piano letterario, civile e militare.
Questa analisi è in realtà opposta a quella fatta in età giovanile dal Leopardi ventenne nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (1818), intriso di commozione e pathos di fronte all’Italia ed evocativo del passato, come stimolo per la rinascita della nazione.
Nel Canto ad Angelo Mai, (composto, a detta del Carducci, tra il 10 ed il 20 gennaio 1820, edito l’8 di luglio dello stesso anno) Leopardi, anticipa alcune tematiche che possono poi trovarsi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi.
Infatti, al sincero entusiasmo per la grande scoperta del Mai, (esempio di erudito che riscopre il manoscritto di Cicerone per celebrare coloro che cercano nel passato per scoprire ciò che manca al presente), all’ammirazione per gli antichi modelli che nobilitarono la patria, al disdegno per le presenti vergogne, si miscela un tetro scetticismo sulla condizione della vita da rendere il Canto un esempio di contrapposizione poetica tra sentimento e ragione, che De Sanctis segnalerà come parametro di «potente rivelazione di una nuova poesia».
Ma nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, al pathos delle precedenti opere, Leopardi preferisce un tono molto diverso e decisamente distaccato, tipico di chi è chiamato a “leggersi nel petto” e teso ad analizzare i comportamenti del vivere sociale.
C’è e si coglie la percezione del processo di civilizzazione moderna, del passaggio epocale, ma in chiave di estinzione o indebolimento delle credenze su cui si possono fondare i principi morali.
La conservazione della società quindi, sembra opera del caso. Così che il presente nasce dalla perdita delle “credenze” ovvero da quella fede nel passato, in grado di generare gli stessi principi morali.
La ricerca del “giusto” e “dell’onesto” di Ciceroniana memoria è la ricerca di una moralità pubblica e privata diffusa nella società.
Leopardi sembra rifarsi a grandi moralisti del ‘600, italiani e francesi, ma il contesto è profondamente diverso. Nel cosiddetto secolo d’oro quegli autori avevano come referente del potere la Corte, lo Stato assoluto, mentre il poeta si trovava di fronte alle c.d. nuove costituzioni.
In questa diversa prospettiva sociale post – rivoluzionaria, ciò che ha poi determinato la modernità nelle nazioni civili prese in considerazione da Leopardi e cioè Francia, Inghilterra e Germania, è l’idea di una “Società stretta” in grado di privilegiare lo sviluppo, all’interno dei costumi dei cittadini di quei paesi, di un’autentica vita associata.
La possibilità data agli uomini di dialogare sinceramente fra loro, avere rapporti quotidiani ed autentici, vivendo insieme e creare un contesto, definito da Leopardi, un «commercio più intimo degli individui fra loro» (che sta per lo scambio costante di esperienze e opinioni), è il sintomo della ricerca di comportamenti ritenuti più autentici, reali ed onesti, che in Italia, secondo il Poeta, non si sviluppano e forse mancano del tutto.
Manca l’ambizione intesa come etica della vita pubblica, cui è subordinata la stessa vita privata, valore questo che, dopo il Rinascimento, tende a diluirsi in concetti come l’onore e la reputazione, che nella società stretta generano e permeano l’opinione pubblica, che non esiste senza una società stretta. C’è nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi, una sorta di analisi sociologica della vita quotidiana del mondo italiano.
Infatti, il termine stesso costumi è accostabile al noto saggio sui costumi di Voltaire che, con tale espressione verbale, definisce proprio la vita sociale.
È poi attraverso l’opinione pubblica che si valutano gli uomini e questa, a sua volta, diventa la misura con cui si svolge tale giudizio.
In “quelle nazioni”, infatti, per Leopardi, gli uomini si vergognano di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito o con un panno logoro.
Di contro la società italiana «…non ha fondamento di morale…» ed è priva di ogni vero vincolo e principio informatore della società, e ciò perché manca di una società stretta.
In tale scenario chi non è occupato in bisogni primari che riguardano la sua diretta sopravvivenza e può dedicarsi ai bisogni secondari, si dedica a quelle che sono le occasioni culturali degli italiani e cioè alle «passeggiate, spettacoli ed andando per Chiese»; queste sono le occupazioni delle classi non bisognose d’Italia.
La ricerca del divertimento è come in Pascal il tentativo di sfuggire alla condizione vera dell’uomo che è il pensiero. È la riflessione che conta nell’esperienza, mentre lo spettacolo è apparenza, un’esperienza singola che non crea una società stretta, è un surrogato, la maschera di un’assenza.
In ogni caso per Leopardi, gli italiani, non hanno un centro e nemmeno formano un “pubblico italiano” corrispondentemente alla dimensione della cultura come spettacolo dell’opinione pubblica. Ciò che quindi manca veramente è una “letteratura nazionale moderna” che invece nelle nazioni evolute genera conformità, omogeneità, un insieme di opinioni e di gusti, che generano, a loro volta, l’identità: «ciascuna città italiana non solo, ma ciascun italiano, fa tuono e maniera da se» e «…siccome non esiste un “buon tuono” non esiste nemmeno convenienza di società…», manca la beuséances (regole sociali di buona creanza) a cui tutti, nei paesi civili, si conformano.
Dalla mancanza di una società stretta nasce un’indifferenza profonda radicata ed efficace verso se stessi e verso gli altri, che costituisce anche «…la maggior peste dei costumi, del carattere e della morale».
Gli italiani ridono della vita più che in ogni altra nazione, è questo il ns. surrogato alla società stretta ma che genera cinismo, egoismo, misantropia e in fondo “l’infelicità sociale e nazionale”.
Questo vale sia nelle classi superiori che nel “popolaccio” e diviene un abito di cinismo che permea il paese e scaturisce dal fatto che non rispettando gli altri non si può essere rispettati.
Giacomo Leopardi quale esempio da seguire per tutti gli italiani dunque, per “ritrovare l’Italia”.
Scelta singolare, a dire il vero, perché egli è pur sempre rappresentato come “il poeta della disperazione”, eppure scelta coerente, perché proprio Leopardi, pur in una vita carica di mali, è stato capace di insegnare «la necessità perentoria e la bellezza incomparabile della lotta», senza cedere (come egli stesso scrisse in una nota lettera a De Sinner del 24 maggio 1832) né alle «frivoles espérances d’une prétendue félicité future et inconnue», né alla «lâche résignation».

Antonio Gramsci, Letteratura e Vita Nazionale
3 Antonio Gramsci, Letteratura e Vita Nazionale (1950)

 

Attraverso il percorso leopardiano traspare in filigrana un tema di grande rilevanza anche per il metodo giuridico: il topos del controllo dell’opinione pubblica.
Nel classico saggio di Max Rheinsten, (Who Watches the Wacthmen?) si afferma che l’opinione pubblica è forse il più efficace dei sistemi di controllo, ma l’illustre autore ammoniva che il suo corretto funzionamento dipendeva in gran parte dall’esistenza di una comunanza di valori condivisi nella società. Potremo dire, per utilizzare la metafora del Discorso sopra lo stato presente del costume degli italiani, che il controllo dell’opinione pubblica funziona solo in presenza di una società stretta. Quando questa manca, quando i costumi (id est la vita sociale) non sono connotati dalla condivisione di regole comuni di “buon tuono”, ecco allora che si finisce pervasi dalla somma di tutte le mezze filosofie fondate sulla “vanità di ogni cosa”. Da qui il maggior danno ai costumi e cioè la nascita di un’indifferenza profonda, radicata ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, : « …che è la maggior peste dé costumi, dei caratteri e della morale».
Terribili considerazioni che non sembrano scritte quasi due secoli fa e che tracciano un impietoso quadro dei costumi italiani ancora drammaticamente attuale ed in parte si lega alle considerazioni di Gramsci nel suo scritto Letteratura e vita nazionale.
Qui il colto politico militante sente la mancanza nella nostra tradizione di un modello letterario aperto a tutte le classi sociali. A questo si sostituisce un cosmopolitismo letterario che, però, ci pone di fronte ad un diverso sentire tra scrittori e popolo. Lo strumento nuovo, anticipatorio dei moderni mezzi mass mediatici è quindi il giornale, guida in grado di creare e orientare l’opinione pubblica.
Ma da qui, come intuibile, si dipana un diverso e forse ancor più problematico filone tematico che sfugge totalmente all’economia di queste sintetiche note, solo volte a celebrare l’impressionante attualità del testamento politico leopardiano.

 

Carlo Calvieri, avvocato, docente di Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università degli Studi di Perugia, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche inerenti la disciplina giuridica. Svolge attività di consulenza per Enti pubblici e Società private.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.