Privacy Policy I “tesori nascosti” in Umbria e le loro leggende
Clara Cecchini Vol. 13, n. 2 (2021) Eredità

I “tesori nascosti” in Umbria e le loro leggende

Questo lavoro tratta di tradizioni orali, in Umbria poco documentate. Riporta e analizza testi, registrati dalla viva voce di informatori anziani, evidenzia i significati attribuiti ai luoghi, la funzione svolta, i bisogni culturali soddisfatti, la concezione del mondo che da essi traspare. Il recupero dei racconti, salvati da impoverimento e perdita, consente di prendere coscienza sia della nostra realtà passata sia del rapporto con territorio e soprannaturale.

“Lì, dice che c’è un tesoro!” Monete, chiocce e pulcini, vitelli…tutti d’oro!

Su questi e altri tesori si tramandano varie leggende, che conservano tutt’oggi gli elementi magici tipici della affabulazione popolare (Thompson, 1967).

In Umbria[1], secondo una tradizione leggendaria diffusa in ogni parte d’Europa, numerosi e eccezionali tesori sono nascosti in luoghi isolati, impervi e di difficile accesso: luoghi ideali per incontri paurosi, “dove se diceva che ce stava la paura”. Torri diroccate, castelli abbandonati e resti di antiche mura hanno contribuito allo sviluppo di un immaginario collettivo pauroso e fantastico, che ha popolato il nostro territorio di figure diaboliche e lo ha reso misterioso e pericoloso.

Certamente, negli ultimi decenni, si è incrinato l’alone di mistero che avvolge questi luoghi: lo spopolamento di campagne e montagne, l’urbanizzazione e la diversificazione delle attività produttive hanno comportato anche la dispersione di gran parte della memoria storico-magica ad essi collegata. Tuttavia, le leggende locali, per la loro brevità e per il loro legarsi a episodi, monumenti, luoghi precisi e individuabili, rappresentano ancora oggi la parte meno labile di ciò che resta del patrimonio narrativo della nostra tradizione orale[2]. Tanto più che, nell’immaginario locale, la memoria e le leggende sono rimaste quanto mai vive poiché i fatti narrati si sono intrecciati con la vita reale delle persone: gli intervistati, infatti, hanno spesso legato la ricerca di un tesoro a fatti accaduti a conoscenti o parenti.

Le storie, che ho raccolto dalla viva voce di persone anziane, variano da luogo a luogo; ma in tutte sono riconoscibili residui di credenze e racconti arcaici o di fatti storici realmente accaduti, ma poi distorti e amplificati dalla fantasia.

I tesori sono di vario tipo. Alcuni sono costituiti dal bottino nascosto nottetempo da ladri e briganti, ma potrebbero essere antichi corredi di tombe o i beni preziosi che nobili e ricchi, incalzati dagli invasori e prima di abbandonare i luoghi di vita, nascondevano sotto terra nella speranza di riprenderli al loro ritorno. Un cocchio tutto d’oro, carico di monete e armature d’oro, giacerebbe sul fondo del Trasimeno: lungo le rive del lago, si dice che è il tesoro del cartaginese Annibale, scontratosi con i Romani nella famosa battaglia del Trasimeno (217 a.C.). E ancora: accanto alla Cappella di San Giuliano a Isola Polvese, “sotto una grande pietra…c’era nascosto un tesoro, un carro pieno d’oro…e qualcuno sembra che ha provato a scalzare…”; ma, rimossa la pietra, non se ne è trovata alcuna traccia (Cecchini, 2002, p. 37). Altre ricchezze di vario tipo, cercate e mai trovate, sarebbero nascoste a Pontenuovo di Torgiano (Perugia), alla base del ponte sul Chiascio. Un tesoro non meglio identificato sarebbe conservato tra i ruderi del castello di Landolina, presso Annifo (tra Foligno e Nocera), e un tesoro è anche nel castello di Poggiomanente (Umbertide). Sembra, poi, che a Pontefelcino (ma non si sa dove), durante l’assedio di Perugia (nell’anno 547), la moglie di Totila sia stata sepolta con tutto il tesoro. E a Valtopina si dice che un vitello d’oro fu nascosto, insieme ad altri beni preziosi, da una regina di nome Cornelia in un cunicolo sotterraneo del castello.

Ci sono anche chiocce d’oro nascoste, con i loro (sette, dodici o mille) pulcini anch’essi d’oro, in varie parti della nostra regione; ma nessuno è riuscito mai a vederle e a impadronirsene. Una chioccia con i suoi pulcini si troverebbe nei pressi di Nocera, dove sarebbe sepolta con una statua e una spada d’oro; una a Santa Anatolia di Narco, dove un’anima dannata la custodisce con i pulcini in una grotta, e un’altra sarebbe vicino a Colfiorito. Un’altra ancora sembra nascosta sotto la torre di Matigge a Trevi, come si narra nella leggenda che segue:

Una chioccia con i pulcini d’oro a Trevi

“È una storia che ho sempre sentito. Questa la raccontava papà mio. Anticamente, da Trevi a Foligno, c’erano tre-quattro case e la torre di Matigge era un luogo di raduno di briganti e, diceva, sotto la torre sembra che c’è un passaggio e che esce non so dove e che lì sotto c’era un tesoro, c’era un famoso tesoro, che è una chioccia con tutti i pulcini d’oro.

Mamma mia diceva sempre di questa biocca e diceva che cercava questo tesoro chi passava là sotto. Ma nessuno l’ha mai trovato, ma l’hanno cercato. Ma c’è un passaggio segreto, comunque, che usavano i briganti per nascondersi, per nascondere la roba rubata, per sfuggire ai carabinieri.

Questa l’ho sentita, la raccontavano. Ecco quello che raccontavano anche vicino al camino, raccontavano queste cose” (Cecchini, 2004, pp. 84-85).

Alcune leggende, inoltre, conservano elementi della tradizione mitologica del vello d’oro: il mostro (serpente o dragone), che custodisce il vello nella mitologia greco-latina, viene sostituito dal diavolo che, nella letteratura popolare medievale, è “il genio della ricchezza sotterrata” ed erede del dio Plutone (Di Nola, 1976, p. 325; cfr. anche Graf, 1980, p. 89).

Marenghi d’oro (Scheggia, 1997)[3]

“C’era una donna che curava la gente con le erbe e aveva un po’ di libri dove studiava le erbe. Dice che un giorno, mentre guardava questi libri, uno ha cominciato a saltare e questo libro diceva: – Comanda, comanda! –

Era il libro del comando che, allora, era tenuto come il libro del diavolo. È uscita fuori di casa urlando, perché aveva paura di questo libro e la gente che la vedeva diceva:

– Buttalo nel fuoco! –

Questa l’ha buttato nel fuoco; ma, invece di bruciare, questo libro riusciva fuori dal fuoco e continuava a saltare e diceva: – Comanda, comanda! –

Poi, l’hanno sotterrato.

La leggenda dice che lì, dove è stato sotterrato questo libro, anni dopo, hanno trovato i marenghi d’oro”.

La presenza del diavolo è uno degli elementi ricorrenti nelle leggende, insieme con la portata eccezionale del tesoro, le modalità (rituali e tabù) per riportarlo alla luce, le prove da superare e la paura. Il diavolo è, anche nelle storie umbre, padrone assoluto e custode delle ricchezze nascoste sotto terra e in questa veste “fa di tutto per spaventare chiunque si appressa al luogo dove ‘il tesoro’ si trova nascosto” (Nicasi, 1912, p.168). Il sotterraneo è luogo infernale e, dunque, pericoloso e legato alla morte (Cocchiara, 1949). Al di là delle variazioni nei particolari, è interessante il contatto che nelle leggende si realizza tra il mondo umano e il mondo soprannaturale tramite la dimensione del terrificante. È questo il loro carattere di maggior rilievo.

Sul luogo dove il tesoro è nascosto aleggia, infatti, una entità (uno spirito o una forza diabolica) che custodisce il tesoro e si oppone alla sua asportazione e, anche se non compare, tuttavia si manifesta in altre forme ostacolando i cercatori e mettendoli in fuga prima del ritrovamento. Perciò, tutti i racconti sono pervasi da una forte carica di drammaticità: la ricerca si svolge in un clima di tensione e, dall’inizio alla fine dell’impresa, gravi pericoli incombono sui cercatori. Inoltre, prima di cominciare a scavare in terra, si deve liberare il tesoro dal maleficio che lo grava; infatti, al momento dell’occultamento, sono state compiute alcune operazioni magiche volte a incantare il tesoro e a contrastarne il ritrovamento. Secondo un preciso rituale, sul luogo, una persona è stata uccisa[4] e la sua anima posta a guardia (Lombardi Satriani, 1971; Cocchiara 1978); perciò, particolari fatti, pur se difficili a verificarsi, dovranno avvenire sopra il nascondiglio per disincantare il tesoro e renderlo accessibile. Già a inizi Novecento, Giuseppe Nicasi[5] (1912), che ha dato un importante contributo alla conoscenza del folclore dell’Alta Valle del Tevere, ha raccolto la seguente testimonianza sul motivo del delitto, cui seguono due racconti più recenti:

Il maleficio

“Si narra che […] un ladro, volendo impedire che fossero rinvenuti alcuni oggetti di valore, da lui rubati e nascosti sotto terra in un bosco, uccidesse un povero viandante e lì ne seppellisse il corpo, imponendo all’anima dell’ucciso di non abbandonare quel posto, finché una persona qualunque non si fosse recata sola a mangiare un piatto di maccheroni sopra gli oggetti nascosti.

L’uccisore si credeva solo nel bosco; ma sopra un albero vicino, dove era salito a raccogliere del vischio, si trovava un contadino che, avendo visto ed inteso tutto, aspettò che il malfattore si fosse allontanato e corse a casa a farsi preparare i maccheroni e ne portò un piatto nel luogo designato. Avendoli mangiati proprio lì, poté impadronirsi del nascosto tesoro senza difficoltà” (p. 169).

Il pane di un forno nuovo e il fritto di un cavallo bianco (San Venanzo, 1996)

“Dice che un tale ha sotterrato i soldi e li ha coperti bene. Poi ha invocato un’anima, che doveva stare lì a vegliare quei soldi. Quell’anima era il demonio. Ha detto:

– Tu uscirai da qui quando una persona da sola mangerà, proprio qui sopra, il pane di un forno nuovo e il fritto di un cavallo bianco –.

Non era facile che qualcuno andasse in quel posto preciso a mangiare!”

Una tavola di ferro e acciaio a Giano

“Papà mi raccontava di una ragazza che era salita su una pianta e lì sotto capitano certi malviventi, ammazzano una persona e la sotterrano lì con i soldi. Allora, dicono che, per averli, devi mangiare su una tavola di ferro e acciaio: devi fare una frittata di sei uova e poi la devi mangiare su una tavola di ferro e acciaio.

La ragazza torna a casa e dice: – Hanno ammazzato uno –. Dalla pianta aveva visto e aveva sentito. I genitori dicono: – Bèh, facciamola questa cosa –. Prendono l’aratro, lo girano sotto sopra e ci fanno questa frittata di sei uova, perché l’aratro è di ferro e acciaio. Così tirano fuori quei soldi. Quando l’hanno tirati fuori, sentirono una voce; ma non stavano a sentire. Come se fosse un’impressione. Ma i soldi l’hanno trovati!”(Cecchini, 2004, p. 83).

Procedure sorprendenti e stravaganti, ma che i cercatori dovevano rispettare con precisione scrupolosa, anche se non erano consapevoli di compiere un rito: mangiare sul luogo indicato certi cibi preparati in un certo modo diventava un atto rituale e, al tempo stesso, magico.

Ma disincantare un tesoro è impresa quanto mai difficile e piena di pericoli. Racchiude soprattutto una minaccia: il diavolo non rinuncia facilmente a quanto è suo e può comparire all’improvviso di fronte ai cercatori. Se questi non operano nella segretezza totale, non solo perdono il tesoro ma vengono anche puniti. Per esempio, chi non scava da solo, come prescritto, tra i ruderi di un castello, viene schiaffeggiato. Così avviene in

Un tesoro nel castello di Morrano (Terni, 1996)

“C’è un ponte a Morrano e, prima del ponte, ci sono i ruderi di un castello. Si dice che chi ci abitava aveva sotterrato un tesoro nei dintorni e, per non farsi scoprire, dice che al cavallo aveva messo i ferri al contrario.

Io la fine non la conosco. Se l’hanno preso o non l’hanno preso, non lo so. So che c’è questa leggenda e che ci sono andati anche abitanti di Morrano a vedere se era vero che c’era questo tesoro. E un certo B., mi diceva mio padre, era andato insieme ad un amico, ma doveva andare da solo. E dice che, mentre scavavano da una parte, si sono sentiti dare due schiaffi. Se è vero non lo so, ma dicono che questo è stato tanto male per la paura. Dopo, per la paura, dice che non c’è andato più nessuno”.

Sono necessarie anche certe doti, quali accortezza, sangue freddo, riflessi pronti. Se riesce a prendere il tesoro, il cercatore deve allontanarsi velocemente dal luogo senza voltarsi, per evitare ogni contatto con l’aldilà: il nascondiglio può chiudersi su se stesso all’improvviso imprigionando il cercatore, come nota Cocchiara (1945). A Torgiano (Perugia), corrono il pericolo due uomini e una donna che, con paura e speranza, scavano tra le rovine del castello alla ricerca del tesoro che credono lì sepolto:

Il tesoro nel castello di Rosciano (Torgiano, 1997)

“Si diceva che nel castello, sotto terra, si trovavano oggetti d’oro. Questa è una vecchia storia che i nonni da sempre raccontano. Si diceva che c’era una campana d’oro o c’era una gallina dalle uove d’oro. Un giorno tre amici, due uomini e una donna, vanno a vedere se veramente c’era quest’oro. Questa donna faceva le fatture, era una fattucchiera.

Decidono e vanno al castello a scavare. Era notte e, scava e riscava, all’improvviso è comparso un fraticello che gli ha chiesto: – Che cosa fate? –

E loro gli hanno risposto: – Cerchiamo l’oro –.

E il frate gli fa un ammonimento: – Smettete, perché se vi vede mio zio…! –

Ma loro non gli hanno dato ascolto.

La fattucchiera aveva una stola da sacerdote e un libro, di quelli che ci facevano gli scongiuri. E, dato che avevano queste cose, stavano tranquilli e scavavano. Ma questo fraticello si è fatto vedere un’altra volta. Una notte, quando tornano a scavare, compare tutto vestito di nero e con un grande mantello e gli fa la stessa domanda: – Che cosa fate? –

E loro rispondono: – Scaviamo, perché qui c’è l’oro –.

Il frate gli fa lo stesso ammonimento: – Smettete! –

Questa storia si è ripetuta una terza volta. Ma la terza volta questo frate era molto arrabbiato, come i tre poi hanno raccontato.

Scavando scavando, erano arrivati al punto dove si trovava l’oro. Ma, proprio in quel momento, sono stati quasi investiti da una grande fiammata e si sono ritrovati in una selva buia, uno da una parte e uno dall’altra. Si sono ritrovati lontani dal castello tanto che, per ritornare a casa, ci sono voluti tre giorni! Uno dei tre ètornato tutto graffiato. Ha detto che, all’improvviso, si era ritrovato in mezzo ad un cespuglio di spini e era tutto ricoperto di sangue. Si sono molto spaventati e hanno raccontato che quella volta hanno visto la paura in faccia. Uno diceva che era come se ci fosse stato il demonio”.

I temerari, che insistono nella ricerca pur se ammoniti a non continuare, vengono puniti: sono allontanati violentemente prima del ritrovamento del tesoro, che così ripiomba nel sottosuolo, dove rimarrà protetto e intatto con tutti i suoi misteri e, soprattutto, nelle mani del diavolo.

In genere, il tesoro non viene trovato; tuttavia il fallimento dell’impresa non dissuade altri dal ripeterla. Quasi sempre l’impresa termina prima del dissotterramento. All’improvviso compare il custode del tesoro, che mette in fuga i cercatori. Di solito il diavolo in persona si manifesta con sembianze terrificanti o sotto le spoglie di altri esseri vestiti di nero a lui collegati, ma può apparire anche con sembianze animali (cani ringhiosi, serpi, rospi, topi…). La paura che i cercatori provano risulterà devastante: smarriscono il senso di sicurezza, mentre il controllo è esercitato dalle forze nascoste che operano nella natura. È evidente in

Un vitello d’oro a Giove (Terni, 1996)

“C’era una serra nel paese. I nonni dicevano che chi ci andava vedeva qualcosa: o una persona tanto brutta o vedevano un cane ringhioso […] questo è un fatto vero […] un cane o un asino, vedevano gli animali tanto brutti che noi dicevamo che era il diavolo. Allora, è avvenuto che due giovani coraggiosi dicono:

– Scaviamo per vedere se possiamo trovare questo vitello d’oro! –

I due ragazzi si sono messi a scavare e a zappare, ma un cane tanto grande si avvicinava a loro e gli andava addosso. Lo scacciavano e seguitavano a zappare. Alla fine, hanno trovato un qualcosa di cocci antichi. Ma, quando hanno cominciato a trovare queste cose, hanno trovato una cosa che gli ha messo tanta paura. Loro non lo dicono quello che è stato. Per la tanta paura, uno quasi si era ammattito. Ha messo tutti Santi nella camera sua e ha cominciato a non starci più con la testa. Noi abbiamo detto che era il diavolo, perché chi cerca i soldi cerca il diavolo! Una volta si diceva così”.

Anche se l’entità diabolica che aleggia sul tesoro non compare, tuttavia può manifestare la propria presenza impaurendo ugualmente i cercatori, per esempio scatenando una tempesta di vento, grandinate e tuoni, o una bufera di neve in piena estate[6]. Così avviene nelle due leggende seguenti. Nella prima, documentata a metà Ottocento da Giovanni Eroli (1858)[7], troviamo anche testimonianza di come opera l’immaginario popolare nella crezione di un favoloso tesoro occultato nel “ponte di Narni nella seconda colonna dell’arcata”:

La favola del tesoro

“[…] Nel volgo narnese è tradizione che il tesoro consista in una gran biocca (chioccia) d’oro, che tiene sotto le ali mille pulcini ugualmente d’oro, che il diavolo lo ha in custodia e tristo a chi lo tocca. Anzi, narrarono alcuni che, nello scavare, lo videro improvvisamente comparire in pelle e ossa con tanto di corna e di coda bernoccoluta, con orecchie d’asino, le mani e i piedi terribilmente unghiati, occhi di fuoco, zanne di porco, tutto nero sconcio peloso, e tanto orribile e pauroso da far venire l’asima e la quartana; che al suo apparire tremò la terra, divenne nero e buio il cielo, traendo un vento impetuoso da schiantar alberi e case, e poi acqua giù a dirotto, folta grandine, tuoni, fulmini…insomma un vero inferno, per cui gli scavatori se la danno a gambe .[…] Questo racconto è fola, ma pure penso che abbia qualche sostanza di verità. Gli antichi usavano mettere nelle fondamenta degli edifici pubblici di qualche importanza alcune monete che ricordassero ai posteri l’epoca della loro costruzione; e così avrà di certo fatto Augusto nel ponte. La memoria di questo fatto è sempre stata nelle bocche dei narnesi; ma, come succede che le tradizioni, invecchiando, si sformano, e l’immaginazione o l’altrui piacevolezza le ingigantisce e colorisce, così le poche monete realmente poste a fondo per Augusto si moltiplicarono a parole, e tante da farne un tesoro, che poi cambiò la forma prosaica in poetica, ed ecco la gigantesca gallina coi pulcini d’oro; ma alcuni con immaginazione fervida vollero aggiungere […] un dramma semitragico spettacoloso, ed ecco il diavolo spaventevole, la strepitosa e amara sinfonia, la fuga precipitosa” (pp. 173-174).

Il tesoro nella torre della Morcicchia (Castel Ritaldi, 2004)

“Dicevano che c’era un vitello d’oro; lo dicevano, ma chissà se è vero. C’era uno, Antonino, che andava a vedere sotto questi posti, dove si diceva che ci stava la paura. Con altri due è andato a vedere alla torre della Morcicchia, perché, si dice che, se uno riesce a trovare la chiave di questo tesoro… Non si sa che tesoro sia, ma grande tanto!

Gli diceva che dovevano andare su tre persone e dovevano dormire nella torre; però, doveva venire fuori un topo; se prendono il topo, diceva: – Sta tranquillo che il tesoro lo prendi. –

Sono andati su che era giugno ed era una serata che tante stelle c’erano in cielo. Sono entrati nella prima camera e Antonino dice: – Quando sarà arrivata l’ora, svegliatemi! – Sennò, morti tutti e tre. Lui faceva finta di dormire. Comparivano delle pietre che gli andavano addosso e lui le buttava fuori dalla finestra. Poi, ecco che viene fuori un topo. Dovevano prenderlo per essere sicuri di prendere questa ricchezza, ma non ce la facevano. Poi, tutto calmo e non c’era più niente. Poi, per la paura, escono dalla torre.

Fuori nevicava a tutto spiano. Antonino ha raccontato:

– Quando siamo usciti, la neve era vera. Sembrava di pestare la neve. E non vedevo l’ora di arrivare a casa per domandare alla moglie se, nel frattempo, lì aveva nevicato –.

Fuori della torre e intorno c’era la neve e giù niente, era tutto asciutto. Ha chiesto alla moglie:

– Ma, verso le due, stanotte, nevicava? –

– Niente! –

Ma lì una bufera!”

Fenomeni violenti, improvvisi e straordinari, che ostacolano i cercatori e vanificano i loro tentativi di asportare il tesoro, spesso compaiono nella parte conclusiva delle leggende: mettono in allarme i temerari e da questi sono riconosciuti come una manifestazione del demonio. Così il sottosuolo può continuare a conservare il suo tesoro e i suoi misteri. Questo racconto rimanda al demonio nelle vesti di ‘tempestario’, la figura più temuta dai nostri contadini.

Anche le correnti d’aria e i vapori caldi che fuoriescono da una grotta[8] mettono paura agli operai che scavano alla ricerca di una sorgente termale. Quando uno di loro si ammala, la malattia è ritenuta la diretta conseguenza del contatto con le emissioni mortali del serpente che si crede abiti nella grotta: un regolo (un drago) dalle corna d’oro. Zeno Zanetti[9] (1887) riunisce gli elementi della vicenda verificatasi nel podere del ‘Serpentaro’, nei pressi di Ascagnano (Monte Corona, Umbertide), così chiamato perché il bosco pullulava di serpi. Dopo la scoperta di una specie di caverna da cui usciva un piccolo getto di vapore acqueo, subito corse la voce che quel cavo era pieno di serpenti e che in esso si udivano sibili acutissimi: la fantasia popolare lo disse subito abitato da un regolo e fece del vapore il fiato del mostro (pp. 147-148):

La grotta del serpentaro

“[…] Il regolo, mi fu detto, è un grosso serpente dal corpo simile a quello di un porcellino da latte, dalla testa di gatto e dalle corna d’oro […] Si pasce di serpi che, avvelenate dal suo alito, si vanno a gettare, quasi attratte, nelle sue fauci; che è chiuso entro un foro del masso, dal quale, essendosi ingrassato, non può più uscire e colui che discende in quella grotta è votato a certa morte. Anzi dirò come, ad avvalorare la voce della presenza di un drago in quella fenditura, sopraggiungesse il fatto seguente.

Non sono dieci anni che il marchese Evelino Waddington, abitando ad Ascagnano e saputo dell’esistenza di questa grotta […] ebbe l’idea di farla esplorare e fare ricerca di una sorgente termale […] Gli operai discesero e si posero al lavoro, ma con grande timore […] e subito tra essi corse la persuasione che scopo delle ricerche […] fosse rintracciare il regolo, ucciderlo e impadronirsi delle sue corna d’oro, giudicate da tutti d’inestimabile valore […] Dopo qualche giorno, alcuni operai, per le esalazioni forse di anidride carbonica che si sviluppa in fondo alla grotta, cominciarono a provare qualche disturbo di respiro e tosto vi fu chi asserì che, se non si desistesse, l’alito del regolo avrebbe ucciso tutti.

Finalmente, un colono […] essendo uscito sudato dalla grotta, cadde malato di morbo polmonare. Ciò bastò per assicurare che l’infelice sarebbe morto, perché avvelenato dal fiato del regolo.

Da quel giorno, i lavori di escavazione furono dovuti sospendere per mancanza di operai che, temendo la morte, per qualunque mercede si ricusavano; il colono fu consunto dalla tisi e finì lentamente, confermando la predizione generale.

Al presente, nessuno più discende nella grotta del Serpentaro e la morte del disgraziato colono ha dato vita alla leggenda del regolo o drago, intorno al quale ogni donna e ogni superstite della ricerca delle corna d’oro, si piace intessere le più svariate fandonie”.

Anche quando i tentativi hanno successo e il tesoro agognato viene trovato, non sempre i cercatori riescono a goderne. Il protagonista diventa ricco all’improvviso e cambia repentinamente il suo status, riscattandosi da un destino di povertà e di totale subalternità[10]. Ma il tesoro, pur sempre dono del diavolo, nasconde un’insidia che si trasforma in tragedia: il fortunato poco tempo dopo muore. Secondo l’interpretazione locale, la morte è messa in rapporto diretto con l’appropriazione indebita del tesoro o con l’avidità del cercatore. Ecco tre esempi (Cecchini, 2004, pp. 83-84, 88):

I soldi sotterrati a Giano

“C’erano i ladri che avevano sotterrato certi soldi. Una leggenda diceva che erano sotto una pianta verde d’inverno. Uno va su per la strada corta per San Felice e trova questa pianta verde. Comincia a guardare e lì c’era quel che c’era. E difatti l’aveva trovati. Poco dopo è morto”.

Una biga di metallo di Corinto a Giano

“Uno, per fare una casa, si mette a scavare e trova una biga (carretto) di metallo di Corinto. Lì, si vede per una guerra, l’avevano sotterrata lì. Trova tanto ferro e sembrava oro, dicevano i figli che hanno scavato, quattro giovanotti che, dicono, erano come le montagne; in pochi giorni, morti. E neanche si capiva il male che avevano. Perché il sottosuolo non è di nostra proprietà.

Un tesoro a Torregrosso (Castel Ritaldi)

“Sulla chiusa (oliveto), dice che l’hanno trovato. E quello che l’ha trovato poco dopo è morto. L’ha tirato fuori questo tesoro, perché l’hanno visto. L’ha trovato con i figli. Che io sappia, c’era l’oro. Ma non se l’è goduto, perché poco dopo è morto”.

Questo epilogo è la chiave per comprendere la funzione e il significato di queste storie, il loro vero valore per le comunità: giustificare sia l’improvviso arricchimento di un membro della comunità e il conseguente cambiamento di status, sia l’evento improvviso della morte. Fatti altrimenti incomprensibili trovano così una spiegazione mitica ma logica; questa, mentre dà fondamento al vissuto, evita crisi negli individui e nell’equilibrio sociale.

L’immaginario attribuisce il cambiamento anche al caso e ad un colpo di fortuna:

Il pane di un forno nuovo e il fritto di un cavallo bianco (San Venanzo, 1997)

“Una sera, un tale va in un campo con tanti soldi; scava una buca sotto un pero e sotterra questi soldi. Subito prima, però, sul pero era salita una persona. Perché una volta, di notte, si andava a rubare la frutta, nel campo degli altri, dato che la possibilità di comprarla non c’era. Quel tale ha sotterrato i soldi e li ha coperti bene. Poi ha invocato un’anima, che doveva stare lì a vegliare quei soldi. Quell’anima era il demonio.

Ha detto: – Tu uscirai da qui quando una persona sola mangerà proprio qui sopra il pane di un forno nuovo e il fritto di un cavallo bianco –.

Non era facile che qualcuno andasse in quel posto preciso a mangiare il pane di un forno nuovo e il fritto di un cavallo bianco. Era molto difficile. E c’era quella persona che stava sul pero e che stava ferma, perché pensava: – Se mi vede, sono noie –.

Aveva sentito tutto e, quando quello si è allontanato, anche questo, che era salito sull’albero per rubare le pere, è sceso e se n’è andato. E si è dato da fare: ha fabbricato questo forno nuovo e ha comprato un cavallo bianco. Poi, ha ammazzato il cavallo e ha preparato il fritto, come doveva fare. Poi, quando era tutto pronto, di notte è tornato sotto quel pero e ha mangiato, da solo, il fritto di cavallo bianco con il pane cotto in un forno nuovo. Alla fine, ha scavato e ha trovato tutti i soldi che quel tale aveva sotterrato. Nel frattempo, non gli ha dato fastidio nessuno, perché aveva fatto tutto quello che doveva fare. E così è diventato ricco”.

I tesori non sono costituiti solo da oggetti favolosi o nascosti in luoghi carichi di storia. Numerosi sono i piccoli tesori familiari sepolti in luoghi umili, come un campo o la stanza di un casolare. Anche in questo caso le leggende presentano un intreccio narrativo simile: l’anima di un morto appare ad un vivo nel luogo simbolico del sogno e gli rivela sia il luogo dove è nascosto il tesoro sia le modalità per impossessarsene; ma impone il divieto di parlarne.

Secondo i nostri interlocutori, le apparizioni sono necessarie in quanto, in base alle credenze, le anime di coloro che in vita hanno nascosto sotto terra oggetti di valore senza avere il tempo di rivelare ad alcuno il nascondiglio, restano confinate nelle vicinanze del tesoro finché questo non viene ritrovato. Il defunto rivela perciò il nascondiglio per riparare all’egoismo che ha dimostrato in vita; la mancanza di solidarietà verso i familiari si paga dopo la morte quando, per trovare la pace, si è costretti a rivelare l’esistenza dei beni preziosi sottratti (Nicasi, 1912). Oppure, le anime dei morti chiedono ai vivi di farsi carico di un debito o di un obbligo che, in vita, hanno lasciato in sospeso. In cambio, danno ai vivi indicazioni per ritrovare un tesoro.

Altre leggende ci parlano di morti riconoscenti, che appaiono in sogno per ricompensare chi li ha aiutati disinteressatamente. Ne è esempio il seguente racconto:

I soldi dietro il mattone (Fratta Todina, 1995)

“La mamma raccontava che qui una volta c’era una donna che non aveva nessun parente. Era sola, poveretta e sempre scalza. E’ successo che è morta all’improvviso e nessuno la voleva toccare, perché era sporca. Una mia zia, invece, l’ha custodita e diceva: – Se non l’avrò da lei, un merito l’avrò dal Signore! È un’opera di carità –.

Dopo un po’ di tempo, l’ha sognata e gli ha detto: – Solo tu mi hai lavato e hai detto: “Se non l’avrò da lei, un merito l’avrò dal Signore!” Però lo devi avere anche da me. Vai su in casa mia, c’è un mattone sul tal posto, togli questo mattone e lì ci sono i soldi –.

Questa donna che era morta aveva una casa, e l’aveva ereditata una persona che si conosceva poco.

E continua: – Chiama la zia e dille: “Andiamo su a casa della povera Rosa”. Vai su. C’è un mattone sul tal posto. Stacca questo mattone e lì ci sono i soldi. Bastano a te e a lei, ma non dire che ti ho detto questo, sennò quella non ti fa entrare –.

Lei ha preso una scusa e sono andate là. Ma è andata diretta al mattone. Appena l’ha spostato, sono venuti fuori due soldi e quell’altra, che era una donna grossa, ha visto e l’ha spinte via fuori di casa. I soldi la mia zia l’ha visti e ce n’erano altri, ma l’ha presi quell’altra”.

Comunque, raggiungere il tesoro non significa impadronirsene e trarne le soddisfazioni sperate: le ricchezze dissotterrate si possono trasformare all’istante in cenere e carbone, quando i cercatori contravvengono alle indicazioni ricevute. Nei racconti seguenti, il tesoro va perduto poiché non si mantiene il segreto come invece era stato richiesto:

Una pignatta di cenere (Civitella Benazzone, Gubbio, 1998)

“Raccontavano che una donna aveva sognato che c’era una pignatta di coccio con due manici e con i soldi dentro. Quell’anima le aveva anche detto:

– Guarda, che tu devi spazzare nella tua camera e troverai qualcosa –.

L’ha sognato e l’ha raccontato a suo marito. Gli ha detto:

– Sì, sì, è vero. Mi ha detto: “Guarda in un angoletto vicino al letto!” –

E lei che ha fatto? Ha preso un martello e ha cominciato a bucare il pavimento. Qualcosa c’era, ma è venuta fuori una pignatta piena di cenere! Era andata anche dal prete a raccontare il sogno e il prete le aveva detto: “Tu devi spazzare e stare zitta!” Non lo doveva dire a nessuno! Lei, invece, l’aveva detto al marito e al prete e, così non ha trovato niente”.

Quella del tesoro (Passignano, 1997)

“I soldi li sognavano, come dicevano i nonni dei nonni. C’erano i soldi ritrovati nei tegamini, per esempio. Non erano soldi rubati, erano della famiglia. Erano le donne che li prendevano, perché allora le famiglie erano numerose; c’erano i fratelli, i cugini, le mogli e litigavano l’uno con l’altro per i soldi e ognuno voleva i suoi. Poi li nascondevano e, quando morivano, non si sapeva dove l’avevano messi. Dopo, qualcuno li sognava e, in sogno, gli dicevano che, sul tal posto, si trovava questa roba. E, infatti, qualcuno li trovava.

Dice che, qualche volta, sognavano il punto preciso; però, ci doveva andare quello che l’aveva sognato e non lo doveva dire a nessuno. Se lo diceva a un altro, non li trovava o trovava il carbone”.

La pentola dei soldi (San Venanzo, 1997)

“Uno ha sognato una persona che gli ha detto dove stavano i soldi: – Vai sul tal posto, ché ci stanno tanti soldi. Però, vedrai che ti faranno tanti dispetti, ma tu scava e non parlare mai, sennò non li prendi –.

Questo è andato lì e si è messo a scavare e spunta il diavolo. Il diavolo faceva il verso del rospo, del topo…e chiamava: – Zio, zio! – e faceva tanti versacci. Però quello continuava a scavare. Ma, quando stava per pigliare la pentola per il manico per tirarla fuori, gli saltarono addosso tutte bestiacce, topi, serpenti, rospi…e il diavolo gridava: – Zio, zio! –

Allora quello ha parlato e ha detto: – Oh, basta! Hai rotto co sto zio! –

E, in quel momento, è diventato tutto carbone”.

La trasformazione del tesoro in cenere o carbone è collegata alla credenza secondo cui l’oro e gli oggetti preziosi sepolti sono di proprietà del demonio[11]. Non a caso, è tradizione anche in Umbria togliere ai morti la fede e ogni altro gioiello prima della sepoltura. È significativo che, per entrare in possesso del tesoro, il cercatore deve lasciare un pegno. Di questo obbligo tassativo si trova una traccia nel racconto seguente, anche se il nostro interlocutore non parla di un tesoro nascosto:

La grotta delle streghe (Giano, 2004)

“Raccontavano che sul Monte Martano, c’è una grotta che chiamiamo grotta delle streghe. È fatta di tante camere, uno dopo l’altra e si dice che chi entra non si orienta. E poi non ci si deve entrare con gli anelli, né fede, né orecchini, né niente. Un parente di G., che c’era entrato, la strada per riuscire dopo un po’ l’ha trovata, ma la fede non ce l’aveva più al dito. Ci sono entrati, come ho sentito dire, quelli che avevano addosso gioielli d’oro, cose preziose; ma, quando uscivano, non ce l’avevano più”.

Il protagonista del racconto, quando torna in superficie, si accorge di non avere più la fede al dito. Il pegno deve essere qualcosa di indistruttibile, come è appunto un anello, simbolo di un’unione indissolubile. E deve essere d’oro, poiché è questo l’elemento più idoneo a disincantare il tesoro.

Dunque, i racconti hanno il potere di dare un senso logico a fatti inaspettati o luttuosi della vita: li collocano in un sistema di pensiero che li rende accettabili evitando così crisi esistenziali. Per rispondere cioè al bisogno profondo di dare una spiegazione a fatti reali, si ricorre al diavolo, un’entità che fa parte dell’ideologia comunitaria. Nella concezione popolare, infatti, il diavolo è causa di ogni disgrazia e a lui è attribuito anche l’evento tragico della morte. Considerato “padrone assoluto delle ricchezze nascoste sotto terra […] si vendica anche con la morte contro chi ha l’ardire di estrarle di sotto terra. Ecco perché, in caso di rinvenimento di tesori, ci si deve servire dell’opera degli animali per rimuoverli dal luogo dove si trovano, affinché ricadano su di essi le conseguenze dell’ira diabolica” (Nicasi, 1912, p.168).

L’immaginario riproduce in queste leggende anche i rapporti reciproci tra vivi e morti: attraverso di essi, gli uni intervengono a modificare lo stato di mancanza degli altri (Zanotelli, 2004). I morti che mancano di pace conquistano un sollievo spirituale e la dimora definitiva nell’aldilà; i vivi, che mancano di benessere, possono ottenere un sollievo materiale, una ricchezza immediata e risolutiva del loro stato di indigenza. Perciò, rivelare il nascondiglio di un tesoro equivale a fare un dono ai vivi. Ma il dono dei morti non consiste semplicemente nella ricchezza materiale. C’è un dono più grande, rilevante a livello culturale, di cui è destinataria la comunità tutta e che riguarda la riproduzione dei rapporti sociali tra i vivi.

Queste leggende, al pari degli altri racconti della tradizione orale, fino a pochi decenni fa svolgevano una funzione pedagogica, motivo della loro esistenza: erano uno strumento di cui le comunità si servivano per trasmettere il loro assetto culturale alle nuove generazioni. Da una parte, infatti, sottolineavano le caratteristiche negative di chi cerca facili ricchezze, come l’avidità e l’egoismo che lo porteranno al fallimento e alla morte; dall’altra evidenziavano i caratteri morali positivi, come coraggio e capacità di sopportazione, onestà e generosità. E, mentre trasmettevano credenze e rappresentazioni della realtà, le nostre leggende contribuivano a spiegare fenomeni naturali e identità individuali e sociali. Rivelano infatti stretti legami con valori e norme che indicavano le mete ideali da perseguire e i modelli di comportamento che il gruppo tendeva ad affermare presso i suoi membri. Riconosciamo qui due dimensioni della cultura che si rafforzano a vicenda: una descrittiva e cognitiva, una prescrittiva. La cultura, poi, come tradizione, riunendo in sé le esperienze, si fa deposito della memoria collettiva per essere trasmessa alle generazioni successive.

Certo, il percorso di vita è irto di difficoltà, ma ognuno può apprendere il modo d’essere condiviso dalla comunità di appartenenza. L’impegno speso per avvicinarsi ad esso avrà il giusto premio: l’integrazione sociale.

Appare chiaro, quindi, che la conquista del tesoro leggendario, sepolto sotto terra e custodito da serpenti o draghi, anime o diavoli, nella realtà trova corrispondenza nella conquista del ‘vero tesoro’: valori e norme culturali che la comunità propone a ogni suo membro di interiorizzare.

 

Bibliografia

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Cecchini C. (2002). Quan c’eva la coglitura de l’oliva: Veglia e profacole a Isola Polvese. Perugia: Guerra.

Cecchini C. (2004). Castel Ritaldi: Storia leggende e altre tradizioni. Perugia: Guerra.

Cecchini C. (2018). Venti e pescatori del Lago Trasimeno. Perugia: Fabrizio Fabbri.

Cocchiara G. (1945). Il diavolo nella tradizione popolare italiana. Palermo: Palumbo.

Cocchiara G. (1978). Sopravvivenze dei sacrifici umani nelle superstizioni italiane dei tesori nascosti. In Preistoria e folklore (pp. 25-33). Palermo: Sellerio.

Di Nola A.M. (1976). Il diavolo. Torino: Boringhieri.

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Eliade M. (1976). Trattato di storia delle religioni. Torino: Boringhieri.

Graf A. (1980). Il diavolo. Roma: Salerno.

Lavinio C. (1997). Le forme della leggenda. La Ricerca Folklorica, 36, pp. 25-32.

Lombardi Satriani L. (1971). Il tesoro sepolto: Santi, streghe e diavoli. Firenze: Sansoni.

Nicasi G. (1912). Le credenze religiose delle popolazioni rurali dell’Alta Valle del Tevere, Lares, 1 (2-3), pp. 137-176.

Pitrè G. (1889). Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Vol. IV. Torino-Palermo: Clausen.

Sanga G. (1985). I generi della narrativa popolare italiana. La Ricerca Folklorica, 12, pp. 49-54.

Thompson S. (1946/1967). La fiaba nella tradizione popolare. Milano: Il Saggiatore.

Zanetti Z. (1887). Il principio di due leggende: La grotta del serpentaro. La Favilla. Rivista di letteratura e di educazione, XI (V), pp. 147-148.

Zanotelli F. (2004). Luoghi, corpi, denaro: Lo scambio tra vivi e morti nella narrativa orale dell’Occidente messicano. La Ricerca Folklorica, 49, pp. 67-76.

[1] Le leggende cui si fa qui riferimento sono la fedele trascrizione e traduzione in italiano di quanto ho registrato, dagli scorsi anni Novanta in varie località dell’Umbria, presso informatori popolari. Provengono (eccetto tre, pubblicate più di cento anni fa da cultori di folclore) dalle mie ricerche sulla narrativa di tradizione orale, oggetto in precedenza di sporadiche attenzioni. Si pensi che nessuna fiaba della nostra regione figura nella celebre raccolta di Italo Calvino (1956): nella sua Introduzione precisa che per l’Umbria non ha trovato “nulla di utilizzabile” (p. XXXVIII). Eppure, come nelle altre regioni, dove la ricerca era iniziata già a fine Ottocento, l’Umbria aveva un proprio patrimonio narrativo, che per consuetudine veniva tramandato oralmente nel circuito delle veglie contadine, contesto abituale di esecuzione (Cecchini, 1994). Ma la scarsità di ricerche non lo ha portato alla luce nella sua consistenza ed esso è rimasto così chiuso e gelosamente custodito all’interno della tradizione di famiglia e di paese. Anche le leggende sui tesori nascosti hanno condiviso la stessa sorte, affidate alla memoria dei loro portatori.

[2] Ma, anche se la memoria dell’esistenza di un tesoro è viva, sul campo non sempre si riesce a raccogliere un testo che narri l’evento preciso (Lavinio, 1997): gli intervistati, anche in Umbria, hanno riferito spesso solo il tipo di tesoro e la località dove, secondo la credenza, si dice sepolto; mentre il tema leggendario non viene sviluppato nella forma narrativa della leggenda.

[3] Si precisa che accanto al titolo si indica luogo e anno di rilevamento per i racconti inediti.

[4] Il motivo del delitto è l’atto centrale del rituale per vincolare un custode al tesoro. Anche Giuseppe Pitrè, iniziatore degli studi folclorici in Italia, riferisce di questo motivo nelle leggende siciliane (1889).

[5] Scrupoloso ricercatore nel territorio di Città di Castello, Giuseppe Nicasi ha documentato, a inizi Novecento, i vari aspetti della vita e della cultura tradizionale dei contadini della piccola comunità di Morra.

[6] È questa la comune conclusione della ricerca del tesoro. Specie secondo le comunità rurali, il diavolo, insieme alle streghe, detiene il potere sulle forze della natura, controlla i fenomeni atmosferici, sa scatenare temporali e tempeste (Cecchini, 1997, 2018 ; Cocchiara, 1945). Sono queste le manifestazioni concrete e violente di quella forza ostile e diabolica che vuole impedire l’asportazione del tesoro.

[7] Illustre letterato, il marchese Giovanni Eroli si è interessato in particolare della storia di Narni, la sua città natale.

[8] Queste leggende avrebbero origine dal “mito arcaico dei ‘mostri’, custodi dell’albero della vita, di una zona consacrata, di valori assoluti. L’accesso è vietato ai non prescelti e chi vuole tentarlo deve dar prova di eroismo o di sapienza” (Eliade, 1976, p. 458). L’oro, simbolo di gloria e immortalità, diventa nelle leggende un tesoro sepolto, oggetto di cupidigia da parte degli uomini. Ma il valore che ha a livello di esperienza magico-religiosa subisce una forte degradazione una volta trasposto a livello umano ed entrato nell’esperienza comune.

[9] Medico perugino e demologo della scuola di Paolo Mantegazza, Zanetti si è interessato soprattutto alla medicina popolare praticata dalle donne; ma, a fine Ottocento ha raccolto nel contado anche alcune leggende.

[10] Le leggende sui tesori nascosti, “grovigli di frustrazioni e di attese”, danno preziose indicazioni sulla psicologia popolare, come nota Glauco Sanga (1985, p. 51).

[11] Secondo la Chiesa, un giorno il diavolo si servirà di tutte le ricchezze nascoste “per diventare signore del mondo” (Graf, 1980, p. 89).

 

Clara Cecchini è ricercatore e professore aggregato nella facoltà di Scienze Politiche di Perugia. Ha insegnato Antropologia culturale e Etnologia fino al 2011. Si occupa principalmente di cultura popolare in Umbria. Ha all’attivo varie pubblicazioni su narrativa di tradizione orale, a seguito di rilevazioni sul campo. 

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