Privacy Policy La sapienza crudele
Angela Margaritelli Vol. 7, n. 2 (2015) Filosofie

La sapienza crudele

Ioan P. Culianu.
1 Ioan Petre Culianu

 

Ioan P. Culianu, un incontro nel tempo dell’esilio

“L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura”

(M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Torino 1967)

 

“Il 21 maggio 1991 Ioan Culianu, brillante e giovane professore (41 anni) di storia delle religioni alla Divinity School della Chicago University entrò in un gabinetto del suo dipartimento. Qualcuno, dal gabinetto accanto, salì sulla tazza, puntò sulla sua testa una Beretta calibro 25 e lo uccise”.

Così scrive Umberto Eco in occasione dell’uscita di un libro che tenta di sciogliere i molti enigmi legati alla morte dello studioso rumeno di enorme prestigio, considerato unico erede dello storico delle religioni Mircea Eliade.
Il libro, intitolato Eros, Magic and the Murder of Professor Culianu di Ted Anton, di cui esiste anche una traduzione italiana (2007), ripercorre la vita, le opere, gli incontri di Ioan P. Culianu, dalla Romania di Ceausescu all’Italia e l’approdo infine in America, con i riconoscimenti accademici e il vissuto dei legami personali, fino a quella tragica fine.
Sembra la trama ideale per un giallo di stile, appunto, americano, invece la realtà ha scritto uno dei più perfetti racconti, una finzione realizzata secondo quei passaggi cari a Borges e allo stesso Culianu.
Nella premessa, Ted Anton confessa di non aver mai incontrato né avuto alcun contatto diretto con Culianu mentre devo questo articolo al motivo opposto: il nostro incontro durante il suo periodo perugino, negli anni 1973 e ’74, il tempo giusto per intrecciare un rapporto e uno scambio di lettere, anche in virtù dei nostri reciproci spostamenti, i suoi certo più radicali. A quel tempo era appena sgusciato dalla morsa del regime rumeno.
In quel periodo infatti siamo stati legati da un intenso rapporto, soprattutto attraverso la scrittura, questo perché restò a Perugia pochi mesi, il tempo di cercare qualche risorsa adeguata che gli permettesse di continuare i suoi studi. Viaggiando tra Roma e Milano, nelle difficili incertezze dei contatti accademici e istituzionali, con le nostre lettere abbiamo tenuto saldo un vincolo di scambio e comprensione reciproca, tanto da permetterci anche qualche asprezza e punta polemica, specie all’inizio, inevitabile per il carattere, l’ambiente e le esperienze d’origine; enormemente dure e complesse le sue, provenendo dalla Romania di Ceausescu, cosa che lo segnerà fino alla fine, comunque si decida l’ipotesi sulla responsabilità dell’omicidio, che appare ragionevole attribuire a derive della famigerata Securitate, una polizia segreta sopravvissuta al crollo di quel regime.
Ma non intendo qui approfondire l’indagine sulle circostanze dell’omicidio, accenno solo al fatto che una scia inquietante connette precedenti storici come la Guardia di Ferro rumena a elementi  arruolati nella polizia del regime, attivi anche dopo la sua caduta[1].
Per conoscere questa realtà, che ha messo sotto accusa Mircea Eliade, suscitando anche una  severa valutazione da parte di Culianu,  resta esemplare lo studio di Furio Jesi, Cultura di destra, (Garzanti, 1979) che rivela l’unicità e il carattere mistico ed esoterico del movimento Guardia di Ferro fondato da Corneliu Codreanu negli anni ’30. Il modo dell’omicidio, con palese forma di umiliazione, le minacce che si erano accumulate nel periodo precedente, quando scritti e interventi pubblici di Culianu spregiavano e mettevano in ridicolo certa classe politica rumena, indirizzano a quella parte di esuli molto presenti nella comunità di Chicago e coinvolti nel movimento.
Queste righe dunque, sono la testimonianza di un’ombra ormai fugace eppure indelebile; permane l’amarezza che avevo già a quel tempo, molto prima della sua fine: essere stata testimone delle difficoltà e precarietà di quel talento enorme; infatti gli organi accademici, tranne poche eccezioni, hanno a lungo ignorato una personalità eminente che a poco più di venti anni parlava e scriveva diverse lingue, molto bene l’italiano; traduceva latino, greco, ebraico, sanscrito, aveva conoscenze profonde storico-filosofiche e letterarie, eppure nel paese più vicino al suo per storia e cultura, stentava duramente a trovare un posto adeguato, proprio nel periodo in cui era più incerto e solo.
Quando arrivò a Perugia, prima dalla Romania e poi da oscuri e tristi luoghi del nord Italia, si presentava come Giovanni, Giovanni Culiano. Era la sua prima forma di adattamento alla nuova situazione, una traduzione che gli appariva necessaria, un modo prudente per non subire storpiature e fraintendimenti.
Questo spiega molto: arrivò come profugo, che è termine meno svilente di emigrante, certo però diverso dall’essere semplicemente un ospite straniero e in questo caso sì che avrebbe avuto diritto al suo nome rumeno.
Ma forse queste sono mie impressioni, perché appunto l’orgoglio era un suo tratto distintivo; trapelava nel pudore della sua precarietà quotidiana, scintillava nella studioso poliglotta, un cittadino del mondo stremato da un regime tetro e feroce.
Quella distanza severe e fragile era un poco addolcita da qualche amico; uno in particolare che lo ospitava spesso a casa sua, una specie di porto per amici e conoscenti, alcuni solo di passaggio. Quella casa offriva incontri spesso casuali e scombinati, ma la legge del caos metteva quasi sempre in accordo esperienze e caratteri. Noi siamo stati uno di quelli.
Bisogna sapere che a pianterreno c’era una stanza abbastanza buia, adiacente all’ingresso principale e il padrone di casa aveva deciso di portarne l’aspetto alle estreme conseguenze  dipingendola completamente di nero. A quel punto Giovanni suggerisce di scriverci brani in sanscrito tratti da testi capitali, sicuramente Bhagavad Gita; ebbene, quei segni per tutti incomprensibili,  suscitavano impressioni di bellezza e potenza quasi magica.
Le frasi a vernice chiara su fondo nero, in parte anche rosso vivo, avevano trasformato quella stanza in una spelonca persino inquietante ed insieme in un luogo di raccoglimento: certo l’effetto finale non invitava a spensierate chiacchiere, sembrava un tempietto domestico per iniziati scombinati, nella migliore delle ipotesi!
Quindi per un certo periodo, ecco che ogni tanto Giovanni arriva e si mette all’opera, anzi alla scrittura, silenzioso e appartato. Finita la sessione, ci si trovava a parlare, a far conoscenza reciproca.
Ebbene, alle prime occasioni di dialogo, escono parole pungenti. Il pretesto un libro, Il Maestro e Margherita di Bulgakov che mi aveva fulminato e avevo letto da poco tempo nell’unica traduzione italiana uscita[2]. Però una volta conosciute certe mie posizioni gauchiste, Giovanni osserva alla prima occasione, anzi me lo scrive, essere quello proprio l’autore che “i miei amici” avevano fatto uccidere. Mortificata e un po’ punta sul vivo, la mia risposta amplia l’argomento penoso  e  punta decisamente su aspetti della vita.  Uno svelamento fatto necessariamente attraverso letteratura e filosofia, a cominciare dalla potenza evocativa dei nostri nomi, primo gradino di una intimità mediata.

Perugia, 27 settembre 1973

“Così, sai probabilmente che “aggelos” non è di origine greca. “Aggelos” era una parola persiana che designava i messaggeri dell’imperatore, mentre “aggera” erano i posti dove questi sostavano e cambiavano i cavalli. Probabile che il vocabolo greco abbia un’origine persiana. Quello che però forse non sai , è l’ambiguità misteriosa del tuo nome e di qualsiasi nome e l’amoralismo della creazione che trascende ogni esperienza. L’esperienza è la più spaventosa [stupidagine] del tempo, la pienezza dell’ironia storica: trasforma in giocattoli, e se non lo sai ancora verrai, comunque, a saperlo.”

Quindi in continuità di dialogo, nella successiva:

Roma, 29-30 settembre 1973

“Insomma voglio dirti che Ricci, il più caro dizionario di questo mondo angelico, mette in rapporto aggelos, con il sanskcrito angirah, “messaggero” il quale deriva certamente dalla radice skr. ANG – “muovere, agitare”. L’angelo, nel mondo indoeuropeo, era un agitatore, onde si spiega anche la tua vocazione.”

Se  la filologia applicata ai nostri nomi sembra la prima chiave dell’identità personale, con il dovuto sarcasmo verso le mie intemperanze, come non leggere nelle righe finali della prima, l’atroce beffa  dell’esito fatale, quell’efferato omicidio?
Il corrispettivo è questa serena fiducia o almeno speranza, custodita sempre nel nome:

Roma, ottobre

“Angela, mi dispiace che questo mondo mi rende incapace di rimanere fedele al simbolo e al rito e mi fa ringraziarti su questo pezzo di carta. Saprai che Yohannan ha lasciato la porta aperta al tuo dono, perché il nome [ebraico] significa proprio PORTA APERTA. E perciò che i suoi buoni genitori gli hanno messo anche il nome di Pietro, che viene da PIETRA (Kephas), perché chi trovasse la porta aperta entrando non cagionasse danni irreparabili per chissà  quale ragione. Così che, gli estranei, entrando dentro dalla porta aperta, vi trovano una pietra e se ne vanno. Solo chi gli è amico, vedrà delle rune sulla pietra e potrà leggere.”

Eravamo due persone sole e tormentate, lui gravato anche da problemi concreti, necessità di ogni tipo e sicuramente oppresso da qualche mortificazione. Ci siamo capiti, ci siamo legati, ci siamo guardati come in uno specchio, davvero ‘nell’enigma’ delle nostre esistenze.
La lucidità di studioso, le sue sterminate conoscenze linguistiche e filosofiche, i segni di cui ha costellato le tante lettere che custodisco, erano come briciole lungo sentieri infiniti e interrotti in cui ci siamo sempre ritrovati, spesso camminando fianco a fianco, lungo idee e risonanze.
In più punti commenta Soren Kierkegaard, avendo presente che era un filosofo di riferimento del mio corso di laurea, grazie al mio docente Cornelio Fabro, primo curatore e traduttore dell’opera completa del filosofo danese, ed è proprio questa edizione italiana che Ioan legge e cita a un certo punto.

Milano, 23 ottobre

“Tu suggerisci: lasciami spiegare – ma non dirò che questa spiegazione sia essenziale, anzi: è pura esistenza, unum purum nihil, tempo e svanire del momento. Dal contatto con la cultura dell’Estremo Oriente si viene a sapere che il mondo è nuovo e totale in ogni momento onde aveva ragione Kierkegaard a definire il momento “Sintesi di temporalità [et] eternità”…Kierkegaard aveva aperture molto più brusche e piene di speranza di Heidegger, benché in fondo, come problematicità l’ultimo discenda dal primo (ma anche come terminologia).
Così, il tremito di una foglia riassume in [se] l’intero universo, ecc. Pare che questa sia la spiegazione teorica della divinazione: colpo d’occhio sullo spiegamento dell’eternità.”

L’ultima riga accenna un argomento centrale della sua ricerca. In tutte le lettere ricorrono temi filosofici e filologici di Storia delle religioni, in particolare l’attenzione su quel sistema di conoscenze chiamato Magia, che lui stesso aveva chiarito non essere certo l’apparato banale largamente divulgato ma l’universo immaginativo che aveva dominato la scienza occidentale per secoli, quando la cultura si basava sulla fede. Un autore di riferimento fondamentale era proprio Giordano Bruno; torna a proposito un brano di Umberto Eco, che appunto lo aveva conosciuto e apprezzato, sempre scritto in occasione della pubblicazione di Ted Anton:

“Il fatto è che Culianu non ha mai asserito che il mondo sia governato da forze magiche, ma semplicemente che esiste un universo delle idee che si sviluppano in modo quasi autonomo, attraverso una combinatoria astratta, e queste combinazioni interferiscono con la storia, con gli eventi materiali, in modi spesso imprevedibili, provocando effetti diversi. Se si legge The Tree of Gnosis si vede che Culianu riteneva che «le idee formano sistemi che possono essere visti come oggetti ideali» e che questi oggetti ideali si uniscono e si separano attraverso una combinatoria di tipo matematico (più che una alchimia, una chimica o forse una fisica delle idee).”

La consonanza di temi e argomenti diventa poi segno di affetto esplicito quando mi regala la sua traduzione dal rumeno di due poesie di Dan Laurentiu, da noi sconosciuto. Per me è davvero bello poterle ora condividere.

Milano, 3 dicembre

“Ecco tre poesie, Angela [in greco], di un amico (anche tuo, penso): Per rinfrescare Rimbaud con vena ellenistico-orientale. Una volta ho sentito il mio destino qui; io non posso piangere, sarebbe troppo bello, ma è stato solo als ob [non so se posso tradurre anche l’ironia]:
 

C’è un silenzio profondo

Ma la città ha perso il suo splendore

Ecco un angelo viaggiando senza

Guida di qua ti prego

 

Dimmi cara

Non è che l’aspetta una disgrazia

Più forte di quella spina

Che si vede nella tua suola raggiante

 

O dimmi cara tu

Che sai che ho amato più

Di ogni altro la pace e la sapienza

Di un tiglio che illuminava nel profondo del mare*

 

Non credi che a quell’angelo

Smarrito da queste parti

Succederà una disgrazia

Che nemmeno aspetta

 

Non credi che amerà

Non credi che morrà

(Dan Laurentiu, Inni al Crepuscolo, pp. 7-8, 1970)

di traverso alla pagina:

“*un tiglio, ecc. – quando apparirà, ti manderò un mio racconto, L’Albero delle ceneri. Purtroppo è in romeno, ma lo tradurrò. Ora non potrei farlo, perché non serbo copia di quello che scrivo. Forse uscirà anche una serie di raccontini orientali, in italiano. Potrei comunicare con una parte migliore di me, che sono dubbioso come samurai, ma infallibile come scrittore. Ma forse scriverò di nuovo uno di questi, Il corridore tibetano, e te lo manderò per Natale, da attaccare in un abete di tradizione borghese ma di sorgente simbolica veneranda…”

Queste poche lettere selezionate, mi sembrano abbastanza esemplari dei tempi, luoghi e momenti che hanno scandito il periodo. Erano gli anni 1973-74, dopo i quali ebbe la possibilità di trasferirsi in America e allora  la distanza geografica diventò la condizione ideale per separarci e affermare il silenzio.
Soprattutto lui lascia alle spalle il difficile periodo perugino e italiano, poi certo le difficoltà e anche le opportunità di quella nuova residenza lo occuparono completamente, fino al tragico epilogo, dopo anni di lavoro e di riconoscimenti straordinari. A Perugia aveva ricevuto molte delusioni, anche in alcuni rapporti personali, quando tutto sembrava precario, abbandonato.

Roma 29-30, settembre

“Credo di avere un po’ di nostalgia di quella (;;. epiteto censurato) città, chissà perché; alla fine mi ci sentivo quasi bene e avevo fatto stupendi progressi nella vita civile; per esempio, mangiavo tre volte al giorno, come nei ricordi d’infanzia. Meno male che me ne sono andato, forse avrei anche smesso di fumare.”

Ci sono persone per le quali la lontananza offre l’unica condizione possibile di intimità. Almeno in quel  periodo, per come eravamo, questa è stata la nostra condizione. Con una libertà di sensazioni, di passioni, di pensieri, di svaghi letterari e poetici che ci permetteva di dire tutto l’essenziale;  quello che credevamo di essere, quello che valeva la pena sapere e sentire, quello che cercavamo.
Il silenzio che è caduto dalla sua partenza ha avuto qualcosa di “sospeso”, come una pausa interminabile che poi si è chiusa bruscamente alla notizia della sua morte, specie in quelle circostanze. In qualche modo la scrittura è stata  davvero la “linea”, come dicono i latini, che ha legato il nostro incontro; di sicuro un modo essenziale di tessere legami, conferme di appartenenza e presenza. Una distanza perfetta, una misura d’intimità possibile.
A distanza di anni penso a Giovanni/Ioan con una scia di affetto e di tenerezza per il dono della sua amicizia, delle sue riflessioni, delle sue confidenze, eppure ormai parla  “da un paese lontano” e lui direbbe,  tra ironia e melanconia, è bello così.

Se ti ricordassi

le mura

dove senza pensiero vendicatore

e senza amare

 

ho trascinato le mie ali

con le bianche piume della solitudine

vedresti da solo

l’uccello che vola

 

io non ricordo nessuno

in questa serata autunnale

quando dormo nell’albero dinanzi alla mia casa

e le mie foglie cadono

 

forse domani quando scorrerò

sul fiume nero sul fiume nero

la cenere tornata dalla metempsicosi

riderà in quattro punti cardinali

 

(Dan Laurentiu, “Il muro della città”, in Viaggio vesperale, 1968)

Avvertenza
I brani dalle lettere citati sono tutti di Ioan P. Culianu, non essendoci più l’abitudine di far copia delle proprie, di cui ovviamente non so più nulla; le parole tra parentesi quadre, sono così scritte.
Un particolare può essere interessante, riguarda il fatto che la sua scrittura spesso invade spazi alternativi alla pagina; di lato e persino sui bordi della busta, così che aprendola si intravedeva un altro testo. Si direbbe che ogni lettera diventa un contenitore iconico e questo per uno studioso di Storia delle religioni è significativo ma svela anche un’urgenza comunicativa in quei momenti di spaesamento ed esilio, in fondo gli studi erano l’unico bene che aveva con sé, viaggiava con bagaglio più che leggero.

 

[1] U. Eco, Un delitto troppo perfetto in “La Repubblica”, 30 aprile 1997
Un giovane rumeno, nato ed educato sotto il regime comunista, cerca di uscire dai limiti oppressivi del proprio universo. Scopre l’opera di un grande storico delle religioni, suo connazionale, Mircea Eliade, che da tempo vive tra la Francia e gli Stati Uniti, si appassiona all’argomento e – solo con pochi amici – si costruisce un mondo intellettuale suo proprio (Anton dice che aveva trovato la possibilità di ribellarsi non esternamente ma internamente). Il giovane si sente oppresso dal clima inquisitorio che regna nel suo paese (viene ripetutamente avvicinato da uomini della famigerata polizia segreta rumena, la Securitate) e finalmente riesce a ottenere borse di studio che lo portano dapprima in Italia, poi in Francia, dove perfeziona le sue ricerche, ottiene un posto di professore in Olanda e finalmente alla Chicago Divinity School.
In questa vicenda patisce tutte le sofferenze di un esule, cerca un contatto con il proprio eroe, Eliade, lo ottiene tra molte difficoltà e inspiegabili resistenze, ma alla fine ne diventa collaboratore e biografo. In questa vicenda il giovane studioso, che poco sapeva di quanto era accaduto nel suo paese prima della sua nascita, scopre che secondo ogni evidenza Eliade era stato vicino alla Guardia di Ferro, una organizzazione rumena di estrema destra, antisemita e filonazista. Interroga il maestro su questo aspetto oscuro del suo passato, ne ottiene solo confessioni a mezza bocca, e nel corso del tempo si rende conto che certamente egli fu vicino all’ambiente della Guardia di Ferro, ma cerca sempre di dimostrare che non ne fu membro, e che certamente non fu né nazista né antisemita. Ma cosa può capire di destra e di sinistra un giovane che per tutto il periodo della sua formazione è stato tenuto all’oscuro delle vicende politiche del mondo occidentale? In un primo momento, secondo Anton, Culianu mostra interesse per gli ambienti culturali di destra, ma in seguito la sua opera e i suoi scritti testimoniano della sua visione democratica. Più tardi sosterrà che la Guardia di Ferro rappresentava «la più segreta, la più enfatica, la più mistica e la più balorda tra le organizzazioni fasciste dell’Europa anteguerra».

[2] Il Maestro e Margherita rivestiva un interesse non solo letterario per Ioan, infatti l’aspetto demonologico dei vari personaggi del romanzo (Voland, Korov’ev, Azazel, Behemoth), implica la profonda conoscenza di questo ambito da parte di Bulgakov. Culianu lo spiega bene in un articolo: Nota di demonologia bulgakoviana in “Aevum” 51 (1977) che ovviamente ho letto anni dopo. Infatti quando ne accenna in una lettera, in effetti io di Behemoth, citato nella Bibbia, a parte la traduzione “ippopotamo”, non  sapevo altro.

 

Angela Margaritelli lavora al  Centro Studi del Teatro Stabile dell’Umbria. Esperta in arte dello spettacolo, svolge da tempo attività di promozione e divulgazione artistica e culturale.

 

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