Privacy Policy Nel legno di un burattino
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Nel legno di un burattino

Perché nel legno di un burattino? Perché credo che sia lì che bisogni frugare per capire il mistero del successo della storia di Pinocchio. “Una bambinata”, la definì Collodi che nel 1881 era un affermato giornalista e autore di storie educative per ragazzi. Accompagnò le prime cartelle della storia scrivendo al redattore capo del Giornale dei Ragazzi, Guido Biagi, “Fanne quel che ti pare, ma se la stampi pagamela bene per farmi venir voglia di seguitarla”. Anche dopo l’edizione in volume, Collodi non attribuì nessuna importanza al suo scritto.

Oggi la storia di Pinocchio fa parte dei classici della letteratura per ragazzi, è stata tradotta in 260 tra lingue e dialetti, ha ispirato opere d’arte di ogni genere, è conosciuta e apprezzata in tutto il mondo. Nella sola Germania ha surclassato Alice nel paese delle meraviglie, che vi arrivò con quarant’anni anni di anticipo, con 45 pubblicazioni contro 33.

Quando un fatto del genere accade, quando l’opera assume valore universale, è perché riporta dei temi universali, un po’ come capita ai motivi presenti nelle grandi religioni e nei miti. Ma come può essere che questo accada per un’opera che sa di datato, che risuona di provincia toscana dell’Ottocento e che soprattutto pone a modello di crescita la figura di un ragazzino perbene oggi francamente desueta?

Ho lavorato intorno a un’ipotesi: che la storia immaginata da Collodi contenga dei motivi archetipici che, disposti in una certa sequenza, ne determinano il valore universale.

In certi casi, come avviene a volte nel sogno, la fantasia riporta immagini che non provengono dall’esperienza dell’Io, ma da un substrato più endopsichico, da quello che Jung definisce Inconscio Collettivo.

Affiorando da questo substrato comune a tutti gli uomini, le immagini si dispongono secondo schemi prefigurati in sequenza a costituire una storia.

È come se dei contenuti psichici già esistenti ma non pensabili, assumano una forma nell’immagine. Così contenuti archetipici relativi al funzionamento della psiche stessa, si oggettivano costituendo quei motivi che ritroviamo poi nella storia del Sacro e nelle storie del Mito.

Perché le immagini di una fantasia appartengano a questo caso, occorre però che siano comparabili a quelle di Miti già esistenti, che si presentino cioè nello stesso contesto di significato.

A favore dell’ipotesi che la storia di Pinocchio si sia costituita con un meccanismo di questo tipo ci sono due fatti.

I biografi di Collodi sembrano concordare sul fatto che la stesura dell’opera sia avvenuta per caso, che le immagini che la costituiscono siano cioè affiorate senza uno scopo voluto.

Purtroppo la mancanza di un’autobiografia di Collodi non consente una conferma sicura né motiva la cosa.

Inoltre la perdita del manoscritto originale non permette che ipotesi interpretative del testo. Dell’originale restano due fogli relativi al finale, da cui si vede che il testo all’origine era più vasto.

Un’ulteriore conferma all’ipotesi che la fantasia sia sgorgata con un pensiero di tipo simbolico e mitologico, e che per questo riporti motivi universali, è costituita dal fatto che poco tempo prima Collodi era stato traduttore delle fiabe di Perrault, come la Bella addormentata, Cappuccetto Rosso, Barbablù: si era quindi a lungo confrontato con le modalità del pensiero simbolico e mitologico da cui certe fiabe provengono.

Nulla esclude che ad un tratto gli venisse l’impulso di buttar giù una storia, senza altra finalità che di esprimere qualcosa. Un po’ come capitò ad Alfieri che nell’Autobiografia racconta un’esperienza del genere.

Insomma, come disse Tabucchi nel 1981, “si tratta dell’opera geniale di uno scrittore che nulla sapeva della propria genialità.”

La storia di Pinocchio si divide in tre momenti:

Inizia con un pezzo di legno da cui è ricavato un burattino. Da questo, dopo una serie di avventure, origina un ragazzino. (Sembra che il perbene l’aggiungesse l’Editore. Collodi dichiarò di non aver mai scritto una cosa del genere.)

Quindi tre momenti in cui si muovono tre personaggi diversi. Cos’è che dà loro continuità? Un elemento sottaciuto ma presente in tutta la storia, anzi il vero protagonista, se la storia viene letta con il criterio della Psicologia Analitica Junghiana.

Questo elemento è la vitalità che anima i tre personaggi, la Zoé, per dirla all’antica, quella forza che anima l’uomo. È forse la sua presenza, esposta in termini simbolici nel testo, a rendere attuale la storia, perché il motivo di questa forza è un mistero ancora irrisolto, è un significato che la mente dell’uomo non ha ancora capito.

Ora proverò a illustrare l’ipotesi di lettura con una premessa: toccherò alcuni punti e tralascerò punti e personaggi molto importanti. Questo per motivi di tempo e per altri motivi che accennerò più avanti.

La storia si apre con un pezzo di legno, un semplice pezzo di legno che, come dice Manganelli in Pinocchio, un testo parallelo, semplice non è.

“Capita” innanzi tutto nella bottega di un falegname, Maestro Ciliegia, e si differenzia dagli altri pezzi di catasta destinati a far fuoco nei caminetti in quanto è animato, ha cioè Voce e Movimento.

La psiche umana procede per analogia, proietta un suo contenuto all’esterno e questo contenuto, ora che si è oggettivato, richiama l’attenzione dell’uomo esercitando un effetto di fascinazione archetipica.

In un giorno lontano il principio di vitalità insito nella psiche stessa, si oggettivò, tra gli altri, nell’albero, che ha una base strettamente connessa alla Terra, un corpo costituito dal tronco, una chioma che si protende al cielo.

Questo accadde in tutte le civiltà, e l’Albero divenne Sacro e contenne uno Spirito.

La grande Madre Albero generò lo Spirito suo figlio. Un po’ come la Phisis, la Natura, che generò Phitòn, il germoglio e gli trasmise la Forza, un po’ come Brimò Signora , La Forza, che ad Eleusi ogni anno generava Brimòs, suo figlio spiga di grano.

I miti relativi all’Albero Sacro e alla sua potenza sono un patrimonio comune in cui si esprime il concetto della Zoé come Forza del Sacro.

Questo vale per la quercia Oracolare di Dodona come per il frassino di Odino tra gli scandinavi o per il Qian mù dei cinesi, altro albero sacro.

In Giappone l’albero che contiene la forza è il ciliegio, e la spada del Samurai, il guerriero, non può essere forgiata se non sui carboni ardenti del ciliegio di cui assume la forza.

Il semplice pezzo di legno animato, riporta in sé il senso dello Spirito dell’Albero, il motivo, cioè, che contiene la Zoé-Forza della Madre Albero da cui proviene e di cui rappresenta una pars pro toto.

Vediamo di che forza si tratta: è principio dinamico, perché dà voce e movimento, ma nello stesso tempo si oppone al divenire: il pezzo di legno non vuole cambiare forma. Protesta quando Maestro Ciliegia vuol farne una zampa di tavolino, e si scaglia contro gli stinchi impresciuttiti di Geppetto e lo insolentisce chiamandolo “Polendina” a sentire che vuol farlo diventare un burattino. Stranamente il legno non protesta quando è sbattuto con violenza contro il muro da Maestro Ciliegia.

Ora, il legno che è animato, ma che vuole restare con la scorza e non digrossato, è identificabile come simbolo, perché come ogni simbolo contiene due opposti, in questo caso stasi e divenire.

“Non c’è coscienza senza differenziazione degli opposti” dice Jung, e la storia di questa forza che anima il legno nella storia, come nell’atemporalità del mito, sembra procedere alla sottolineatura e differenziazione degli opposti.

Nell’opposizione del pezzo di legno al cambiamento di forma, nell’accenno alla volontà della stasi, al voler permanere nello stato naturale, attaccato idealmente al mondo di Madre Albero da cui è tuttavia staccato, riecheggia la nostalgia che il mito esprime con il ricordo dell’Età dell’Oro, dell’Eden con le sue delizie, della Beata Culla in cui si muove agli inizi la coscienza dell’uomo avvolta nell’abbraccio simbiotico. Lì, in quel luogo ideale, in una condizione di aproblematica onnipotenza, dove cioè ogni potenziale è anche potenza, non c’è nulla da chiedere perché tutto è dato e non c’è decisione da prendere.

Al principio statico della forza si oppone tuttavia il principio dinamico della sua stessa animazione. Come accade per la Psiche: all’Inconscio quale Mater Materia si oppone l’energia dinamica del Sé: l’Inerzia della Terra comprende la vita che in essa e da essa si svolge.

Il principio dinamico che anima il pezzo di legno, ne segna anche il destino: così com’è non può né andare al fuoco, né può radicare o vegetare: deve assumere una forma che permetta alla sua energia di esprimersi.

Un po’ come sottolinea Hillmann: Finì l’Eden e cominciò la vita.

Dal pezzo di legno Geppetto ricava il burattino: dalla forma naturalistica del pezzo di legno esce la forma antropomorfa del burattino che ha nome Pinocchio. Reso nelle categorie del sacro, il motivo della nascita di un dio della vegetazione dall’Albero Madre è molto diffuso.

 A Cnossos, il castone di un anello minoico rappresenta un dio giovanetto che esce dall’Albero. Dionisos Endendros, Dioniso che è nell’albero, era una delle eplichesi del Dio, la cui statua, secondo una leggenda riferita da Otto, venne ritrovata nel tronco di un platano spezzato dal vento.

L’ipotesi di partenza, che cioè l’Immaginazione di Collodi abbia dato forma a contenuti archetipici e li abbia sviluppati con una modalità mitopoietica sembra a questo punto prendere corpo: nel percorso di quella che si può definire psicostoria, motivi religiosi e mitologici hanno non solo rappresentato l’idea della forza, ma ne hanno via via sottolineata la pericolosità dell’eccesso e, con questa, la necessità e la modalità della modulazione.

All’inizio della forza viene rappresentato l’eccesso. I titani ricacciati nel tartaro perché dotati di potenza distruttiva, Gilgamesh che nell’epopea mesopotamica è mitigato dalla presenza di Enkidu, il troppo di Achille che noi traduciamo in ira che “infiniti lutti dette agli Achei”; tra gli dei, Odino, Poseidone, e poi figure come i Coreti, i Cabiri etc, nella personificazione dei fenomeni naturali a cui si connettono, come il tuono, il temporale, il vento della tempesta.

Tutto richiama all’eccesso della forza, alla dinamicità sfrenata.

Fatte le gambe e imparato a camminare, Pinocchio si dà alla corsa sfrenata per il paese.

“Andava a salti come una lepre, e battendo i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un fracasso, come venti paia di zoccoli da contadini”.

Movimento e rumore. Dioniso Eriboas, Roboante, lo stesso che muove alla frenesia del Baccheuiein, la follia delle Baccanti che si muovono a schiera forsennata sui monti portando morte cruenta.

Ma qui si parla di Pinocchio, un burattino allegro ed è bene associargli immagini di rumore e movimento meno violente. C’è un curioso parallelo alla sua corsa, immaginato da Omero.

È nell’Inno a Pan, quella semicapretta che è Dio della Natura e che dà nome al Panico, quella situazione di emozioni aggrovigliate, provate ma non pensate, che sono capaci di opprimere corpo ed anima paralizzandoli.

Il Pan di Omero, dal piede caprino, amante del clamore, irsuto, si aggira da ogni parte “…guidando con rapido batter di piedi, vociante.”

Dicevo di opposti presenti in un’immagine simbolica. All’eccesso si oppone il senso del limite, della necessità di modulazione dell’eccesso.

Pinocchio ora incontra due limiti alla sua sfrenatezza

Uno esterno è dato dal Carabiniere che lo afferra per il naso, nel segno che la civiltà di ogni epoca non può ammettere onnipotenze egocentriche.

L’altro limite viene dall’interno stesso dell’uomo, ed è dato dai suoi bisogni.

Per Pinocchio questo limite è la fame che resterà insoddisfatta.

Si addormenta poggiando i piedi al caldano.

Che la sua sia ancora una coscienza immatura, che rappresenti ancora uno spirito connesso a madre natura, l’ha ribadito al giudizioso Grillo dicendo “Io voglio correre dietro alle farfalle e salire sugli alberi ad acchiappare gli uccellini di nido”.

Il segno del limite, nell’Immaginazione di Collodi, si rafforza nel segno dei piedi che, una volta bruciati, saranno rifatti e riattaccati da Geppetto, sul cui ruolo di demiurgo ci sarebbe molto da dire.

Ora Pinocchio reca impresso il segno del limite nei piedi, il segno dello smorzamento dell’onnipotenza legata alla sola sicurezza della prestanza corporea. Lo stesso è accaduto agli eroi di ben altre epopee, vedi Achille e il tallone, Edipo col piede gonfio, Giasone che procede con un solo calzare, Ercole che a Lerna ha il piede attanagliato dal granchio. Anche nell’india Bramanica il giovane iniziando doveva stare su di una pietra, poggiando su un solo piede.

Ma Pinocchio non può e non vuole ancora capire. Svende l’Abbecedario e i suoi buoni propositi per andare al Teatro dei Burattini. La sua forza non vuole ancora cultura, preferisce la soddisfazione all’istante, si muove all’insegna del Nun, il tempo immediato, e non sa aspettare il Kairòs, il tempo opportuno.

La scena che si svolge nel teatrino è funzionale a rafforzare l’idea degli opposti.

I burattini lo riconoscono e lo chiamano fratello. A differenza di lui, hanno un padrone dal nome e dall’aspetto terribili: l’Omone smisurato dagli occhi rossi come lanterne che ne richiamano altri di dantesca memoria, si chiama Mangiafoco. La forza smisurata contro la fragilità dei Burattini, che oltretutto sono da lui dominati. Che si tratti di una rappresentazione personificata in un essere Ctonio come può esserlo un arcaico Minosse o un Polifemo, della brutalità dell’istinto che provenendo dai cavi abissi ove s’affollano zanne, e che prevale sull’uomo e sui suoi sentimenti? Mangiafoco ha i tratti di un maschile ctonio, del Paredro della Grande Madre negativa. A favore di questo rappresentare un livello in cui la commozione non si esprime ancora nel sentimento ma in senso di scarica psicomotoria, potrebbe esserci lo scotimento del corpo nello starnuto con cui Mangiafoco esprime la sua commozione. “Starnuto”, e cito lo Zingarelli, è “Violento atto espiratorio con urto sonoro dell’aria contro le fauci”.

La scena del teatro si svolge all’insegna del rispecchiamento, secondo i canoni della Tragedia: Pinocchio si confronta con la potenza brutale di Mangiafoco, questi con la paura del debole Pinocchio che vorrebbe bruciare per arrostire il montone.

Vedere e rispecchiarsi, da soli, non bastano per capire, né basta, come dice Aristotele, l’Insegnamento.

Perché la contemplazione della scena, Theoria, produca Catarsi, purificazione, ci vuole la Pathe, la pena data da compassione e paura.

La pena di Mangiafoco è data dalla compassione per Pinocchio che piange per sé e per Arlecchino. La sua catarsi è che alla fine sacrifica la cena e dà al burattino 5 zecchini d’oro perché li porti al povero padre. È questo, in burletta, il tema del sacrificio, necessario nel mito al cambiamento. Mangiafoco con tutto ciò che rappresenta, ne esce più umano.

La pena del Burattino è data dalla paura di morire bruciato e dalla compassione per Arlecchino che rischia la stessa sorte in sua vece.

Si tratta tuttavia di una catarsi momentanea, legata al sentimentalismo fugace, di una coscienza che mantiene l’attenzione di un attimo per tornare a sognare progetti regressivi di onnipotenza contro l’impegno di soccorrere il padre Geppetto. Non ricorda che poco prima l’ha invocato con un “babbino aiutatemi, non voglio morire!”.

Nel segno di un’iniziazione mancata, Pinocchio incontra Volpe a Gatto che si fingono feriti, l’una zoppa e l’altro cieco. Il Tellurico Gatto mangia l’Ouranico Merlo che avverte Pinocchio del pericolo, come dire che la coercitività dell’istinto prevale sul proposito della saggezza.

Attratto dall’idea che senza alcuno sforzo gli zecchini d’oro vegeteranno in albero di ricchezza, Pinocchio cadrà nella trappola tesa dai due animali.

A Pinocchio immaturo non spetta una sorte diversa da quella del dio giovinetto:

finirà impiccato all’Albero.

Spirito venuto dall’Albero, ritornerà simbolicamente ad esso; nel mito, questo spetta ad ogni giovane dio della vegetazione, ridare la propria linfa alla Madre perché si arricchisca e rigeneri un figlio che sa usare la forza in modo diverso.

Pinocchio dondola appeso al ramo, mosso dal vento, come Odino che dice:

“Lo so che sono stato appeso al tronco dal vento nove notti intere. Da una lancia ferito e sacrificato a Odino, io a me stesso”.

Collodi pose la parola fine al suo racconto al termine di questa scena. Riprese a scrivere dopo alcuni mesi dietro le insistenze dell’editore. La bambina dai capelli turchini cui Pinocchio aveva inutilmente chiesto aiuto era comparsa alla fine solo per dire che era morta. Forse l’anima di Collodi si era stancata e l’ispirazione si era avviata alla fine.

Il resto della storia venne scritto su commissione, per uno scopo voluto, così simbolicamente è meno attendibile. Tra gli altri motivi che vi compaiono, due sembrano proseguire la traccia della storia primitiva, riguardano la simbologia della morte del ciuchino e il rientro nel ventre del pescecane con l’incontro con il progenitore.

Alberto Massarelli

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