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Racconti Tommaso Vitti Vol. 8, n. 1 (2016)

La dichiarazione

Michelangelo Antonioni, "L'Eclisse".
1 L’Eclisse, di Michelangelo Antonioni (1962)

 

Nella sala da tè dove spesso ci incontriamo il pomeriggio, Titti è di spalle di fronte alla finestra, illuminata dal bel sole di maggio e, sembra, pensierosa.
Ai piedi due Chanel di tacco medio, una gamba tesa e l’altra flessa, con la punta del piede che tocca terra.
In uno dei tanti pomeriggi passati imbalordito davanti alla televisione avevo sentito un medico obeso e in camice chiosare il tacco come motore del passo elastico femminile. Oh… beata ebetudine medica! Quanto spesso nel passo la femmina par  zampettar sui trampoli! – È nella STASI che lo stiletto impone alla caviglia fina il moto ascensionale che esplode dapprima nel profilo del polpaccio, per poi, al termine del tratto rastremato, ripetere l’abbrivio verso la vertigine: scrambled eggs, oh my darling how I love your legs (Signore Altissimo sto diventando Hyde! Non riesco più a controllarmi?)

***

Avevo conosciuto Titti un anno e mezzo prima. Lei brillante laureanda in Chimica, io anonimo fuori corso di Lettere Moderne. Si era venuta a sedere nell’unica sedia, al mio tavolino, lasciata libera al bar dell’università e aveva chiesto a voce bassa, con l’aria distratta di donna abituata a maschi che scattano sull’attenti (e dall’occhio lubrico), il permesso di sedersi. Bella, oltremodo bella per me, perché mi venisse in mente un pretesto e attaccassi discorso, eravamo rimasti in silenzio almeno venti minuti. Dopo aver bevuto un cappuccino si era messa a leggere, e mi ci era voluto un bel po’ per capire, sbirciando mentre guardavo dalla parte opposta, che libro fosse. Era il PIACERE. E lì non c’era stato imbarazzo di sorta perché la battuta era venuta spontanea: «Ti piace? – le avevo chiesto – a me sembra un trombone! Ma te lo immagini uno che parlando così rimorchia amanti a iosa?» Titti, anziché andarsene o guardarmi storto, aveva accennato un sorriso dolce, come quelli che si mandano ai bambini. «Senti, anch’io pensavo all’inizio che fosse davvero troppo retorico e un po’ ridicolo. Ma poi, non lo so…ha cominciato a piacermi. Mi diverte…o forse mi distrae. Non lo so.  Dovessi dire perché mi piace, non saprei.»
Per non sprecare l’insperato guadagno ero riuscito solo ad alzarmi e dirle che, ci fossimo rincontrati, mi avrebbe spiegato le ignote qualità del Piacere. «Io mi chiamo Lorenzo», dissi alzandomi e allungando il braccio. «Piacere – aveva risposto stringendo la mano e ridacchiando – io mi chiamo Titti».

***

Avevo frequentato due anni fa un seminario di letteratura italiana contemporanea sul Piacere. Il professore ci aveva invitato a parlare in libertà all’americana [a strologare!], senza paure. Ero intervenuto un paio di volte biascicando grosso modo quello che avevo detto a Titti – sennò che seminario yankee era. Il professore mi aveva guardato mesto, forse aprendo la bocca e alzando a riccio il labbro superiore, come quando viene da vomitare. Oramai eravamo al secondo anno di Magistrale – cominciò a sermonare – certamente dovevamo dire quanto avevamo in testa, ma non lasciare che la spuma cerebrale sparasse solo fregnacce: l’importanza del romanzo di D’Annunzio per la letteratura italiana successiva era senza esagerazioni c-o-l-o-s-s-a-l-e, gli ululati del ’68 erano finiti da tempo, bisognava sforzarsi almeno un po’ di coglierne le atmosfere e soprattutto fare attenzione alla lingua, di là del fatto che suonasse ampollosa; la lingua italiana deteriora in fretta ecc. ecc. Dopo la seconda domanda avevo serrato la mente e mi ero zittito per non compromettere l’esame. Così, col senno di poi, avevo scoperto che una laureanda in chimica aveva più sensibilità letteraria di me! I miei studi erano fatti di parole. Scivolavano forse le parole sulla mia mente piatta come goccioline d’olio su lastra ghiaccia?

***

Cominciai a fermarmi al bar universitario tutti i giorni a seguire e, incredibile a dirsi, Titti dopo tre giorni era tornata e si era seduta vicino a me, e poi era ritornata e mi si era di nuovo seduta accanto, e poi ancora di nuovo. Chiacchierava in libertà, dei romanzi che leggeva, della tesi che preparava, della casa e delle amiche – mai di maschi.
Al quinto incontro mi disse che raramente aveva incontrato un ragazzo che, come il sottoscritto, sapesse ascoltare – grazie santa Pupa, non avevo niente da dire!
Sembrava ascoltassi rapito, in realtà guardavo estasiato, e di tanto in tanto bisbigliavo “ma certo!”, “capisco!”, “davvero?”, gli eccitanti per i logorroici. Poi, col tempo, il mistero del suo misterioso interesse per me si era diradato. Durante l’esame di maturità Titti aveva avuto un terribile esaurimento nervoso; male di famiglia, precisò. Dopo un anno di chiacchiere e chimica si era ripresa, ma la ferita era profonda. Da allora, si capiva, aveva cominciato a interessarsi soprattutto a sé, alle sue ansie e paure, alle angosce del mattino quando con il sole desiderava la notte. Ricadeva e si riprendeva. Era riuscita a studiare, ma non andava avanti senza colloqui settimanali con lo strizzacervelli. Un vero tormento erano diventati i rapporti con gli altri, con i genitori, le amiche e in particolare, manco a dirlo, con gli uomini. Aveva avuto due storie importanti, confessò, una persino appassionata. Ma non andava, non era andata, per quanto fosse un bel ragazzo, anche sveglio. Non poteva capirla e non stava a sentire; cercava di mettersi in mostra e voleva sempre rimanessero soli, per  spogliare e toccare. Diceva di essersi innamorato, ma a lei, dopo poco, non arrivava nulla. Forse lui sentiva e provava, ma in solitudine. Vedi, con te parliamo – concludeva Titti – ma anche dopo la pizza serale (due volte!) non mi chiedi di venire a casa (con i miei?) o di rimanere in macchina (la bianchina?), non cerchi mai di renderti interessante, di meravigliarmi o di parlare per ore, senza capire se ti seguo o mi secco. Quando vedo gli occhi frustrati di un uomo perché non lo guardo interessata inizia subito quella pressione allo stomaco che s’irradia al petto e diventa angoscia. Con te tutto questo non mi succede mai, mai. Tu rispetti sempre i tempi e non mi vuoi trattenere! Quanto mi piace che non mi carezzi distratto la mano, che non lasci cadere il palmo sul braccio o massaggi scherzosamente la spalla. Non hai mai fretta e, se parli, non hai segreti!
Ma certo che stavi bene, tanto bene, con me, Titti mia. Ero diventato la tua migliore AMICA, per di più silente: una testa d’angelo senz’ali. Io non soffro d’angosce, non sono nevrotico, casomai tendo alla malattia mentale. Forse per questo partecipavo commosso più alla vita di quei poveretti che alla tua. Che peripezie erotiche dovevano aver passato: sussurri e grida. Eppure, eppure, forse perché non mi angoscio con gli angosciati e perché sei uno schianto mai capitato e che mai più capiterà, più il tempo passava più stracuocevo come un merluzzo dimenticato a lungo in pentola sul fuoco acceso.

***

A sei mesi dal primo incontro era comunque cambiata qualcosa. Nel senso che anch’io avevo cominciato a parlare, e lei a ridere e ad ascoltare.
So di essere intellettualmente mediocre, senza che la consapevolezza alzi di un et il mio cervello. Mio padre, pover’uomo, aveva a suo tempo insistito perché m’iscrivessi a filosofia, m’avrebbe dato “struttura”, diceva. Io degli anni liceali ricordo solo il “sapere di non sapere” socratico e la sentenza mi è sempre sembrata la soglia sul delirio: sapendo di essere imbecilli si dovrebbe diventare, per prodigio sofico, intelligenti.
Ho però una qualità rara, ho una memoria straordinaria.
Zia Gasperina premeva perché m’iscrivessi a lingue, ma la mia memoria trattiene le parole, i suoni, meno i significati, quasi per nulla le norme che li avvincigliano.
Ebbene, dopo la prima chiacchierata su D’Annunzio, avevo riletto Il piacere – dovrebbe esser chiaro, vero? E poi, dopo tutto il vate, era stato un fiume in piena, un torrente alpino: insalate di poesia e Landolfi, Gadda, D’Arrigo, mi ero spinto sino a Pizzuto. Non è che mi piacessero, discriminassi o li capissi, ma ricordavo le parole, e assieme a queste: allitterazioni, anastrofi, chiasmi, zeugmi, iperboli e sinestesie. Quanto rimaneva in testa era una materia collosa, una sorta di limbo fra i suoni e il mondo. Ma il divertimento vero non era leggere, era ripetere! O meglio imitare o rigurgitare a piacere quello che avevo letto. Prendevo lo spunto da un fatto o da un oggetto e cercavo di descriverlo attraverso la melassa di termini che avevo ingoiato. Sprone o sperone (lo vedi?) della monomania in cui mi ero cacciato era stata anche Titti. Non solo perché ero partito da un suo interesse per interessarla, ma perché sentendomi una volta almanaccare sopra pensiero un’ardita descrizione di un amoerro che aveva indosso, aveva cominciato a divertirsi e stuzzicarmi perché presentassi a modo mio questo e quest’altro. Così m’invitava, ad esempio, a descrivere una coppia seduta vicino a noi.
«Dimmi, cosa fanno?». Ed io: «Forse le dice che vuole affrontare la notte umida e luccicante come se ella fosse la scurezza, con il corpo perso nella notte assieme al suo. E che anche nei sogni, avvertendola, s’inabissa nell’onda calda e scura dell’abbandono voluttuoso». «E lei che risponde?». «Ah lei! La donna non apre la bocca per smuovere l’aria. Che lui percorra la contrada tutta per sé, nel barlume degli infrequenti fanali! In foro interno un brivido le corre per tutte le midolle se immagina d’udire da un altro altre parole». «Quindi sta con lui e pensa a un altro!». «Un altro o qualcuno mai incontrato, un ignoto? Non può essere che l’altro sia il futuro? Quali gioie o dolori le serba l’avvenire? Potrà sottrarsi alla passione che l’attira abbacinandola?».
E Titti, bontà sua, di tali deiezioni, rideva. Certo, quando la tiravo alla lunga, cominciava a guardarmi perplessa. Io capivo al volo il suo imbarazzo e mi zittivo.
Preoccupante, molto preoccupante, però, il fatto che spesso, in foro interno, continuassi da solo.

***

Passato un anno mi ero laureato, su Mario Soldati, con 95. Per la tesi mi avevano dato due punti. Relatore e correlatore erano d’accordo nel considerare l’elaborato povero d’idee. Ma non era scritto malissimo, dicevano. Soprattutto, osservò il correlatore che una parte se l’era sfogliata, non avevo copiato. «Sa cosa, Signor Farneti – aveva aggiunto -, lei non ha copiato, ma la sua tesi sembra la parafrasi della scarsa letteratura critica che ha letto».
I miei volevano cercassi supplenze al nord, ma io avevo fatto domanda a Roma. Come facevo a lasciare Titti? Già ora passavo ore sul divano o sul letto arzigogolando. Cosa avrei fatto da solo senza i momenti con lei? E poi, avessi trovato una supplenza, cosa avrei raccontato a quei disgraziati?
A tal punto me ne rendevo conto, io mi stavo seriamente ammalazzando (ammalando).
Qualche volta mi chiedevo, pochi secondi, che razza di malore mentale mi fosse toccato. Matti in famiglia non ce n’erano. Perché correvo per ore dietro parole senza senso? La risposta era, credo, quella di Titti: «mi DIVERTE… o forse mi distrae». Anche io ho i miei dolori e il continuo arzigogolare è un cuscino di piume che attutisce le pene, anche quelle per questo radioso e irraggiungibile pezzo di bionda.
Una cosa però l’avevo colta, un’ebrezza o inebriamento tutto mio. Almanaccare, saltare di parola in parola, è come scendere scalini di ghiaccio con le suole di cuoio. Per non cadere NON devi sostare un istante. Anche a me il tempo che passa fa tristezza. E in quelle tiritere mute io PASSAVO con lui, gli montavo a cavalcioni.

***

Un anno e sei mesi e la cosa si trascina. Così non posso andare avanti. Mia madre è convinta che sia depresso e mio padre che sempre più somigli a zio Aldo, il mantenuto superidrofobico della famiglia: sei mesi a ciabattare poco pulito da noi e sei a litigare sempre più zozzo con la sorella, zia Anita. Devo dare una svolta, una Kehre, alla vicenda, anche perché rischio sempre più di uscire di senno. E l’unico modo per spezzare il nodo, per lasciare il labirinto, è quello di chiedere a Titti se vuole stare con me: sì, proprio con me! Mi guarderà come guarderebbe un’amica scoprendo che ha setole di lontra sulle gambe. Anch’io l’avrò tradita, mi dirà. Non mi vorrà più vedere. Ma qualcosa, quale che sia, cambierà. Devo ripartire da capo, anche se non so da dove.

***

Due settimane fa credevo di aver sbrigato la faccenda nel modo veloce e piano. Avevamo fatto una lunga passeggiata al Gianicolo, ci eravamo seduti all’ombra su una panchina e avevamo chiacchierato a lungo e senza vaniloqui (da parte mia) sul nostro passato, sulle difficoltà di tutti, anche nostre, di campare in pace senza essere sempre soffocati dall’ansia di fare chissacché senza riuscire a nulla. All’improvviso, proprio dopo un breve silenzio imbarazzato, non so come, le avevo preso la mano cominciando a carezzarla dagio adagio, ma con passione, portandola poi alla mia guancia. A molti, se non a tutti, parrà un gesto da minchione anziché ardito, ma l’ardore varia col contesto e se sono riuscito anche poco a spiegarmi, a chiarire le maledette circostanze, era il massimo di lascivia carnale che potevo tentare. Era più che toccarla in posti segreti.
Ebbene, Titti non era rimasta di sale, non si era scomposta, questo il punto! Aveva ripetuto il sorriso dolce della prima volta. Sai, aveva cominciato, ieri sono stata a un convegno su evoluzione ed emozioni dove hanno sbrodolato al lungo sul contrasto fra il nostro atavico cervello da serpente e l’adattamento culturale. Come sai io credo solo alla realtà della chimica e ai sogni della letteratura; in mezzo, per me, c’è ben poco. Alla fine, hanno anche discusso, immaginati il livello, delle difficoltà di amicizia fra sessi, come deducendole dalle nostre caratteristiche biologiche ed evolutive. Banalità, baggianate, certamente, eppure è vero che queste difficoltà io le ho avute tutta la vita, com’è vero che ogni regola ha la sua eccezione. Come vedi, tu sei la mia, ci carezziamo da amici.
Parole, parole, devo trovare parole per farle capire! Con i gesti non riesco a nulla. O rimango, come in questo caso, alla letteratura, o esagerando corro il rischio di vederla scappare via offesa, abbandonata alla chimica. La questione è che le parole sono per me il problema, non il mezzo per portare Titti alla benedetta via di mezzo.

***

Così mi ritrovo al bar. Il punto da cui sono partito nel mio breve resoconto.
Titti è di spalle davanti alla finestra, e con il cuore stretto stretto mi decido.
«Ciao Titti»
«Ah, ci sei – si volta -, è mezz’ora che t’aspetto!»
«Titti, ti devo parlare»
«E parla!»
«Titti….Non t’arrabbiare. M’immagino… per te sarà un fulmine a ciel sereno (che perla letteraria!). Ma qualcosa dovresti aver capito… Come te lo devo dire? Come frase piena di midolla sostanziale che vive e respira e palpita come la cosa di cui ritrae la forma? Il tuo amico ha perso la testa… Per dirlo all’antica: vorrei diventassi la mia donna!»
«Lorenzo, cosa cazzo dici!?»
«Non badare al modo, stai al contenuto. Di me ahimè sai tutto. Sai cosa ti posso dare. Niente burle, niente celie. È l’unica cosa che voglio. O te o perdo tutto!»
Titti, con un sorriso un po’ ebete a bocca aperta sta per rispondere ancora, ma poi capisce, finalmente intuisce perché farnetico anche quando non scherzo e dove mi sono spinto. Si siede di botto: con le gambe divaricate, i gomiti sulle ginocchia, e la testa nascosta fra le mani, come quando si è tanto tanto stanchi. Passano due minuti eterni e non so se bofonchi qualcosa o se sia il mio cervello: «mancava solo questa Dio benedetto. Ma tanto… peggio di così. Se solo… uto… one…. nziato».
Poi alza la testa. Forse è il sole che picchia sulla guancia, ma la sua carnagione trasparente è piena di brufoli sottopelle. E gli occhi, gli occhi! Lucidi, grandi, blu e alluminati ora sono rossi e annacquati. Anche vuoti o bolsi, come quando si guarda qualcuno troppo da vicino. Pare un film di fantascienza: Titti, in due minuti, è invecchiata!
Finalmente riprende, anche se parla con affanno.
«Non so che dirti Lorenzo, davvero non me l’aspettavo. Mi sento un po’ tradita. Ma che potremmo fare io e te assieme? Le chiacchiere non mancherebbero, questo è sicuro. E la confidenza che ho con te! Ma poi? Per dirla papale: ti voglio bene e non ti amo, lo sai. Certo, dirai tu, si può tentare, magari per ripensarci. In fondo, non ti offendere, ne ho provate tante… ma è dignitoso? Lo è per me e soprattutto per te? E poi…»
Blatera ancora a lungo e io non la sento più. MI STO DISTRAENDO. Di sicuro perché sono un codardo e ho paura della risposta. Ma può anche essere che la mia testa stia andando interamente in pappa: Lorenzo, novello Giasone alla ricerca del sogno d’oro; l’Oblomov dello sproloquio. Così mi ritrovo a descrivere, chissà perché – anche il cinema è entrato ultimamente nel garbuglio di luoghi su cui divagare – la fine dell’Eclisse di Antonioni, film in cui per la noia non riuscivo neppure a dormire: il cielo di velluto, l’alone diafano dei lampioni, le casse mobili, le biche di formiche…
Non so quanto dura l’escursione, ma all’improvviso mi risveglio e afferro l’ultima frase di Titti, sudata e come rassegnata.
«E sia Lorenzo, sia. Forse non vederti più sarebbe peggio. È che…, lo confesso, quando non ci sei, SENTO IL SILENZIO, e ho paura. Per ora – ma, sinceramente, per quanto? – acconsento!»
Che parole, che parole! Al dubbio hai trovato una risposta. Finalmente, parole precise e possenti, anche se lubriche.
Sant’Iddio!
Ma… sono le sue
… o le mie?

Monica Vitti sul set di L'Eclissi.
2 Monica Vitti in L’Eclisse di Michelangelo Antonioni (1962)

 

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